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Archivio per novembre 2011

Veleni, le conferme e le mezze verità

5 novembre 2011 Commenti chiusi

I tecnici dell’Ispra convalidano i dati dell’Arpacal sul livello di contaminazione chimica. Ma restano i dubbi sulla radioattività riscontrata nell’area.

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di Roberto De Santo

(fonte: Corriere della Calabria)

Località Foresta

Fiume Oliva - Ottantasettemila metri cubi di veleni. Questo è l’ultimo dato che rappresenta l’ennesimo tassello del puzzle chiamato Valle dell’Oliva. Sono stati i tecnici dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) a fornire questo dato, nel corso di un vertice operativo con l’Arpa Calabria, al procuratore capo di Paola, Bruno Giordano, titolare dell’indagine sull’inquinamento di quest’area del Tirreno cosentino. Un quantitativo di sostanze tossico-nocive che, secondo i calcoli degli uomini della Procura di Paola, per essere trasportate hanno comportato circa ottomila viaggi di camion di grandi dimensioni. Migliaia di viaggi che questi grossi autocarri avrebbero effettuato nell’area accompagnati, poi, dall’utilizzo di altri mezzi meccanici necessari a nascondere i veleni nel sottosuolo dell’area. Un lavoro lungo e delicato, avvenuto nel silenzio assordante degli abitanti dei luoghi, che sarebbe durato diversi anni. Stando alle stime degli investigatori, almeno vent’anni. Cioè da quando, agli inizi degli anni 90, queste zone sono state interessate dalle prime, sostanziali, modifiche dei luoghi. Uno studio aereo-fotografico comparato della vallata, nelle mani del procuratore capo, comproverebbe proprio questo assunto. Anni nei quali, secondo l’ipotesi investigativa della Procura di Paola, nei terreni, nell’alveo e nelle acque del torrente che bagna i Comuni di Amantea, San Pietro in Amantea, Aiello Calabro e Serra d’Aiello sarebbero stati interrati, anche con la complicità degli uomini della malavita organizzata, non solo sostanze tossico-nocive ma anche radioattive. Non bisogna dimenticare che alcuni dei rinvenimenti avvenuti nell’area sarebbero dovuti proprio alle indicazioni fornite da alcuni uomini affiliati al clan Muto di Cetraro. Rivelazioni, contenute in una informativa specifica consegnata nelle mani del procuratore Giordano, che hanno permesso agli inquirenti di circoscrivere le ricerche su quattro o cinque siti risultati poi contaminati. Un piano criminale, secondo la Procura, teso a riempire di veleni una delle più suggestive aree naturali del Tirreno cosentino. E le analisi effettuate nella vallata dell’Oliva da parte di periti della Procura ma anche dai tecnici dell’Arpacal, già anticipate nei precedenti numeri dal

Ottomila viaggi di camion di grandi dimensioni carichi di rifiuti tossici

Corriere della Calabria, comproverebbero questa tesi. E, intanto, un’altra verità attende la conferma solo processuale: alcune di queste aree contaminate dai veleni erano private. Sotto questi terreni, utilizzati quotidianamente fino allo scorso anno per la coltivazione di prodotti agricoli locali ma anche per il foraggio degli animali, sono stati rivenuti fanghi industriali altamente nocivi. Secondo le indagini, alcune decine di migliaia di metri cubi. Una verità terribile che dimostrerebbe come la contaminazione tossica sia entrata per anni direttamente nella catena alimentare degli abitanti della zona. Per questo motivo la Procura ha già stralciato la posizione di quattro soggetti, risultati appunto proprietari o concessionari di tre fondi coltivati, che sono stati già rinviati a giudizio. Per loro l’accusa è quella di aver trasformato i propri terreni in vere e proprie discariche illecite di materiale altamente pericoloso. Il vertice con l’Ispra Intanto dai dati dell’Ispra, che saranno ufficialmente consegnati alla Procura entro fine settembre, emergono nuove conferme, seppure parziali, sull’ipotesi di inquinamento della vallata. In particolare i tecnici dell’Istituto hanno convalidato praticamente tutte le analisi chimiche che l’Arpacal ha effettuato sui campioni prelevati nel corso degli ultimi anni attraverso carotaggi, scavi, rilievi di superficie, verifiche stratigrafiche e indagini geofisiche sull’intera area. Soprattutto in località Foresta di Serra d’Aiello e nelle località Carbonara e Giani di Aiello Calabro. Da quelle analisi era emerso un livello elevatissimo di contaminazione dell’area da parte di fanghi industriali la cui provenienza, secondo la Procura, per caratteristiche e quantitativi riscontrati, non può essere locale. I dati, ora confermati dall’Ispra, indicano, infatti, la presenza nei terreni e nel sottosuolo della zona di resti della lavorazione di idrocarburi difficilmente riscontrabile in zona e con valori altissimi: dieci volte superiore al fondo naturale. Ma anche metalli pesanti come l’arsenico e il rame sempre con una concentrazione fino a dieci volte superiore alla norma. Da quelle analisi emerse anche un quantitativo eccessivo di cadmio (6,5 volte superiore alla norma), zinco (cinque volte superiore alla norma), antimonio, cromo esavalente e cobalto. Per queste sostanze l’indicazione fornita dall’Ispra è precisa: «Per le loro caratteristiche dovranno essere rimosse dalla zona per, poi, essere smaltite in discariche specifiche». L’altra conferma viene sempre dagli stessi tecnici dell’Istituto che hanno rilevato come alcune concentrazioni di queste sostanze si siano potute ridurre a causa della permanenza protratta negli anni in terreni altamente permeabili, ma i cui effetti, hanno spiegato, si sarebbero già manifestati attraverso il passaggio nelle falde acquifere superficiali e profonde. Nessuna spiegazione ulteriore, invece, sul livello di contaminazione radioattiva riscontrata nell’area. Per l’Ispra i picchi di cesio 137, riscontrati con valori addirittura 16 volte superiori a quelli del fondo naturale della zona, sarebbero da ritenersi come effetto della contaminazione da ricaduta di Chernobyl. Una spiegazione che non chiarisce fino in fondo come sia stato possibile accumulare in aree ben circoscritte (Valle Petrone e Cava di Aiello Calabro e nelle località di Foresta di Serra d’Aiello) percentuali così alte di questa sostanza radioattiva. Un giallo che si svolge, tra l’altro, in una zona teatro del presunto traffico delle cosiddette “navi dei veleni”.


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Black river

5 novembre 2011 Commenti chiusi

Il Ctu della Procura di Paola denuncia: «Correlazione tra tumori e sostanze rinvenute nell’Oliva». L’Ispra nega qualsiasi trasmissione di atti al procuratore.

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di Roberto De Santo (fonte: Corriere della Calabria)

Fiume Oliva – «Catturavo trote ed anguille. Le trote che catturavo si presentavano con la testa molto più grande rispetto al resto del corpo, non solo gli esemplari adulti ma anche gli esemplari più giovani». Il racconto non è tratto da un film dell’orrore o da un romanzo noir ma è la storia di uno dei tanti abitanti dell’hinterland amanteano che per anni hanno frequentato la Valle dell’Oliva finita nell’indagine che la Procura di Paola sta portando avanti su presunti casi d’interramento di veleni. Un uomo che, soprattutto nel corso degli anni 90, assieme a un suo amico, aveva l’abitudine di andare nel torrente Oliva per pescare.
Un passatempo. Un modo per stare insieme e trascorrere  ore spensierate trasformatosi, per entrambi, in una condanna: carcinoma della parete bronchiale per uno e angioma epatico per l’altro.
Due sentenze definitive, con diagnosi apparentemente diversa, ma che in comune hanno quello che i medici definiscono «iniziatore delle patologie tumorali»: le sostanze ritrovate in località Foresta di Serra d’Aiello. Manganese, ferro, triclorometano, arsenico, manganese, riscontrati nelle acque con valori a volte trenta volte superiori  alle condizioni naturali dei luoghi. A cui si aggiungono altri metalli pesanti ritrovati nei terreni e nel sottosuolo dell’Oliva. Ma soprattutto il cesio 137.
Lì, nei luoghi dove erano soliti ritrovarsi i due amici per pescare, i tecnici dell’Arpacal, nel 2004, avevano rinvenuto, a una profondità di cinque metri, proprio questo isotopo artificiale con un valore pari a 3,59 B/kg (Bequerel per chilogrammo di terreno). Un valore altissimo mai riscontrato prima in altre zone, a questa profondità, che secondo l’ultima relazione del dottor Giacomino Brancati, il tecnico nominato dal procuratore capo Bruno Giordano, sarebbe sufficiente a giustificare i carcinomi nella zona. E i dati trasmessi alla Procura di Paola, lo scorso febbraio dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), sembrerebbero dare corpo alla tesi. In particolare, il consulente chiamato a valutare proprio il caso dei due pescatori amatoriali alla luce degli ultimi dati forniti dall’Ispra parla «dell’esistenza di una correlazione» tra sostanze rinvenute nell’Oliva e patologie tumorali.

tumore tiroide

Nel rapporto Brancati si trova dell’altro. La drammatica storia degli amici accomunati dalla passione della pesca non è l’unica sotto l’osservazione del tecnico. Ma assomiglia maledettamente a quella di altre due persone che, da anni, vivono nella vallata dell’Oliva. In questo caso la loro diagnosi porta il nome di carcinoma della tiroide. La causa, però, sembrerebbe la stessa. Anche per loro il consulente tecnico della Procura di Paola parla di correlazione stretta tra il materiale ritrovato in località Foresta e il tumore contratto. Una valutazione precisa che è ancora più dettagliata rispetto a quella  già espressa dallo stesso Ctu nel suo precedente rapporto del 2009.
In quell’occasione il tecnico aveva passato in rassegna tutti i casi di tumore registrati in quest’area mettendoli a confronto con il dato nazionale e regionale. Già allora Brancati aveva stabilito «l’esistenza di un eccesso statisticamente significativo di mortalità nell’area del distretto di Amantea rispetto al restante territorio regionale».  Nel suo studio, consegnato alla Procura di Paola «Catturavo trote ed anguille. Le trote che catturavo si presentavano con la testa molto più grande rispetto al resto del corpo, non solo gli esemplari adulti ma anche gli esemplari più giovani». Il racconto non è tratto da un film dell’orrore o da un romanzo noir ma è la storia di uno dei tanti abitanti dell’hinterland amanteano che per anni hanno frequentato la Valle dell’Oliva finita nell’indagine che la Procura di Paola sta portando avanti su presunti casi d’interramento di veleni. Un uomo che, soprattutto nel corso degli anni 90, assieme a un suo amico, aveva l’abitudine di andare nel torrente Oliva per pescare.
Un passatempo. Un modo per stare insieme e trascorrere  ore spensierate trasformatosi, per entrambi, in una condanna: carcinoma della parete bronchiale per uno e angioma epatico per l’altro.
Due sentenze definitive, con diagnosi apparentemente diversa, ma che in comune hanno quello che i medici definiscono «iniziatore delle patologie tumorali»: le sostanze ritrovate in località Foresta di Serra d’Aiello. Manganese, ferro, triclorometano, arsenico, manganese, riscontrati nelle acque con valori a volte trenta volte superiori  alle condizioni naturali dei luoghi. A cui si aggiungono altri metalli pesanti ritrovati nei terreni e nel sottosuolo dell’Oliva. Ma soprattutto il cesio 137.
Lì, nei luoghi dove erano soliti ritrovarsi i due amici per pescare, i tecnici dell’Arpacal, nel 2004, avevano rinvenuto, a una profondità di cinque metri, proprio questo isotopo artificiale con un valore pari a 3,59 B/kg (Bequerel per chilogrammo di terreno). Un valore altissimo mai riscontrato prima in altre zone, a questa profondità, che secondo l’ultima relazione del dottor Giacomino Brancati, il tecnico nominato dal procuratore capo Bruno Giordano, sarebbe sufficiente a giustificare i carcinomi nella zona. E i dati trasmessi alla Procura di Paola, lo scorso febbraio dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), sembrerebbero dare corpo alla tesi. In particolare, il consulente chiamato a valutare proprio il caso dei due pescatori amatoriali alla luce degli ultimi dati forniti dall’Ispra parla «dell’esistenza di una correlazione» tra sostanze rinvenute nell’Oliva e patologie tumorali.
Nel rapporto Brancati si trova dell’altro. La drammatica storia degli amici accomunati dalla passione della pesca non è l’unica sotto l’osservazione del tecnico. Ma assomiglia maledettamente a quella di altre due persone che, da anni, vivono nella vallata dell’Oliva. In questo caso la loro diagnosi porta il nome di carcinoma della tiroide. La causa, però, sembrerebbe la stessa. Anche per loro il consulente tecnico della Procura di Paola parla di correlazione stretta tra il materiale ritrovato in località Foresta e il tumore contratto. Una valutazione precisa che è ancora più dettagliata rispetto a quella  già espressa dallo stesso Ctu nel suo precedente rapporto del 2009.
In quell’occasione il tecnico aveva passato in rassegna tutti i casi di tumore registrati in quest’area mettendoli a confronto con il dato nazionale e regionale. Già allora Brancati aveva stabilito «l’esistenza di un eccesso statisticamente significativo di mortalità nell’area del distretto di Amantea rispetto al restante territorio regionale».  Nel suo studio, consegnato alla Procura di Paola nel maggio del 2009, il tecnico aveva individuato 1.808 casi nei Comuni ricadenti nel distretto sanitario di Amantea di cui ben 191 proprio nell’area di località Foresta.
Un’incidenza così elevata da far lanciare un vero e proprio allarme per i cittadini della zona. «Si conferma – scriveva Brancati – l’esistenza di un pericolo attuale per la popolazione residente nei territori dei comuni di Amantea, San Pietro in Amantea e Serra d’Aiello, circostante al letto del fiume Oliva a sud della località Foresta, dovuto alla presenza di contaminanti ambientali capaci di indurre patologie tumorali e non».
E ancora. «Occorre rilevare – denunciava il consulente – la suggestiva evidenza di un eccesso di tumori maligni della tiroide nei territori più prossimi ai siti di contaminazione, che, ancorché al di sotto del limite di significatività statistica, concorda con la presenza anomala di cesio 137». Un allarme che, alla luce del nuovo rapporto scaturito dagli ultimi dati esaminati dal tecnico, sembra più che mai attuale.

La posizione dell’Ispra
L’Ispra non sembra voler ancora confermare né tantomeno commentare ufficialmente i dati sui carotaggi avvenuti lo scorso anno nella valle dell’Oliva. Nonostante le prime indiscrezioni che proprio il Corriere della Calabria ha anticipato e che indicano, tra l’altro, un livello di contaminazione da cesio 137, rinvenuto in località Petrone di Aiello Calabro, circa dieci volte superiore la media regionale.
«Non so nulla di questi dati – afferma laconico Leonardo Arru, dirigente dell’Ispra e direttore dei lavori di carotaggio della vallata dell’Oliva -. Stiamo concludendo le nostre valutazioni e appena avremo chiuso l’intero studio di caratterizzazione dei siti lo consegneremo alla Procura di Paola. Sarà il procuratore a decidere se rendere pubblici i dati che, ripeto, non abbiamo ancora trasmesso».
Il dirigente Ispra non vuole valutare neppure i dati già acquisiti da precedenti studi e che indicherebbero l’altissimo livello di contaminazione presente nell’Oliva. Nessun cenno neppure sugli effetti che queste sostanze potrebbero indurre su quanti vivono nella vallata. «Non posso commentare nessun dato visto che l’indagine è ancora in corso».

La collinetta degli orrori
E l’altro dato drammatico che emergerebbe da questa storia fatta di veleni nascosti e tumori ricade sull’incidenza elevata di patologie oncologiche registrate in un’area ancor più delimitata.
Ad essere particolarmente colpito, infatti, sembrerebbe il centro abitato di Contrada Gallo. Un borgo rurale del Comune di San Pietro in Amantea che si trova su una collinetta, proprio al di sopra dei siti dove sono stati ritrovati i materiali inquinanti, con quei valori così alti, tra cui lo stesso cesio 137. In una missiva-denuncia presentata nel 2009 al sindaco di San Pietro in Amantea da un’assistente sociale che vive nella zona emergerebbero, infatti, dati clamorosi. Oltre il 10% dei cittadini residenti in questa località avrebbero contratto patologie oncologiche.

Località Foresta

La donna aveva segnalato, infatti, che su 177 abitanti in questa località diciotto si sarebbero ammalati di tumori e cinque di questi sarebbero anche deceduti. «Il decorrere delle patologie menzionate – scriveva la dottoressa – si è verificata all’inizio degli anni ’90 e il primo decesso si è verificato nel 1996».
Nell’ultimo caso denunciato dall’assistente sociale residente nella zona si trattava di una ragazza di 27 anni. Ma le morti come i nuovi casi di residenti che hanno contratto malattie oncologiche in questa area sono continuati anche negli anni successivi. Per lo più tumori al colon, alla tiroide, alla laringe come anche ai polmoni ed alle vesciche. Patologie che, leggendo attentamente il rapporto Brancati, sarebbero pienamente compatibili con le sostanze rinvenute nella vallata dell’Oliva.
Anche se, adesso, sono in pochi in zona a volerne parlare. Soprattutto ora. Quando l’estate è alle porte. «Noi viviamo grazie a un’attività commerciale – spiega chi abita nell’Oliva –. Abbiamo già pagato abbastanza per questa storia. Non è giusto continuare a subire».

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