Parlano la madre di Ilaria e il faccendiere Giorgio Comerio
Articolo pubblicato dal settimanale VIVO
Parlano la madre di Ilaria e il faccendiere Giorgio Comerio
di Raffaella Fanelli
«Non so niente di Ilaria Alpi. E non ho mai avuto, né ho mai visto, il suo certificato di morte». A parlare è Giorgio Comerio, protagonista negli anni ‘90, secondo gli investigatori calabresi, di un gigantesco traffico di rifiuti radioattivi con altri faccendieri, malavitosi e trafficanti d’armi. Non lo abbiamo cercato in Africa, dove ha dichiarato di essersi trasferito, né in Svizzera, in quella casa di Lugano venduta come tutto il resto, ma in Italia, in Liguria, in un paese dell’entroterra. «Sono sempre stato qui, perché dovrei fuggire? Non ho niente da nascondere». Ma era nascosta nella sua villa di Garlasco una cartellina gialla con la scritta Somalia e il numero 31. Nella cartella c’era il certificato di morte di Ilaria Alpi. «Le ripeto che non ho mai avuto quel certificato. L’unico certificato di morte trovato in casa mia è quello di mia suocera. E poi che senso avrebbe avuto per me avere il certificato di morte di Ilaria Alpi? Chi me lo avrebbe dato? Il comune di Roma?». Lei conosce Giancarlo Marocchino? «Mai conosciuto. E perché mai avrei dovuto? Non sono mai stato in Somalia né ho mai frequentato somali. E’ tutta una bufala, una vergognosa montatura. Se ci fosse stato qualcosa non sarei qui ma in carcere… Nessun reato è mai emerso, smettetela di indicarmi come il boss delle scorie nucleari». Giorgio Comerio chiude la conversazione. E la porta di casa. Dice di non aver mai avuto rapporti con Giancarlo Marocchino, il discusso imprenditore italiano tirato in ballo da Francesco Fonti, il pentito della ‘ndrangheta autore delle clamorose rivelazioni sulle navi dei veleni affondate nel Mediterraneo. Giancarlo Marocchino, secondo Fonti, avrebbe messo a disposizione uomini e mezzi necessari a scaricare le navi cariche di rifiuti tossici e armi… «prendevano i bidoni di scorie e come pagamento le casse di armi. Preferivano quelle ai soldi». E sempre secondo Fonti sarebbe stato Giancarlo Marocchino, grazie alle sue amicizie, ad evitare fastidi e controlli. Dichiarazioni confermate dal pentito anche la scorsa settimana a Roma, davanti al pm Giancarlo Amato che da un anno e mezzo segue quell’inchiesta che il gip Emanuele Cersosimo non ha voluto archiviare. L’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 uccisa in Somalia il 20 marzo del 1994 insieme a Miran Hrovatin. Ma Fonti di quel duplice omicidio dice di non avere notizie precise, almeno non dirette. Perché avvenuto nel 1994, lo stesso anno in cui aveva iniziato a collaborare. A parlare. Eppure solo di recente, nel 2004, ha detto di questo traffico di rifiuti tossici. Non prima. Ha accusato Giancarlo Marocchino che da Mogadiscio lo ha querelato. Francesco Fonti ha anche rivelato di aver avuto più volte contatti con Marino Ganzerla, imprenditore di Pavia domiciliato in Svizzera, socio di Giorgio Comerio. Addirittura ha detto di aver ricevuto (ma la circostanza non è mai stata dimostrata) dall’imprenditore somme di denaro in cambio dello stoccaggio di ingenti quantitativi di rifiuti tossici in Somalia. Ma facciamo un passo indietro. Giancarlo Marocchino. fu la prima persona a vedere i cadaveri di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, lui a ordinare che venissero caricati sulla sua vettura. Lui a ritrovare il block notes della giornalista e le videocassette di Miran. «E mancano le registrazioni», ricorda Luciana Alpi, la mamma di Ilaria. «Mia figlia prima di essere uccisa aveva incontrato il sultano di Bosaso. Ricordo che nella sua deposizione davanti alla commissione parlamentare il sultano disse di essere stato intervistato per quasi tre ore da Ilaria e Miran. Eppure il nastro ritrovato contiene solo 25 minuti di video e nessuno ha saputo spiegarne il motivo. Un’intervista che era stata realizzata soprattutto per confermare, in sostanza, le fonti. Questo ha raccontato il sultano, Ilaria era al corrente sia del traffico d’armi sia del traffico di rifiuti e da lui voleva solo una conferma. Sono, dunque, molti i punti che non sono mai stati approfonditi, come anche la storia delle minacce ricevute da Ilaria. Nonostante queste dichiarazioni, però, non è successo nulla». E sono 26 i punti che il nuovo pm Giancarlo Amato ha avuto l’incarico di analizzare. Eppure in quei punti manca Giorgio Comerio. Nessuno ha pensato di convocarlo nonostante quel certificato di morte di Ilaria Alpi che il capitano Natale De Grazia avrebbe trovato nella casa di Garlasco di proprietà del noto faccendiere. «Esatto, continua Luciana Alpi. Noi quel certificato ancora non lo abbiamo, e sono passati 15 anni dalla morte di mia figlia. Ma gli inquirenti non hanno nessuna perplessità su questa persona che aveva in mano, chissà come, questo documento oltre a un dossier sulla Somalia, carte poi sparite, “prelevate” dall’archivio della procura di Reggio Calabria. E Natale de Grazia ha perso la vita per niente…».
«Anche per Ilaria e Miran si è trattato di delitti su commissione. Per avere un colpo alla nuca qualcosa di grosso avevano trovato. Non si deve dimenticare che entrambi sono stati freddati da un solo colpo… non sono morti in un conflitto a fuoco. Quella è stata un’esecuzione. Sono spariti anche tre block notes di Ilaria, fogli con numeri telefonici».
E non per niente Fadouma Mohamed Mamud, figlia dell’ex sindaco di Mogadiscio, dichiara a verbale il 16 giugno 1999: «Ilaria mi aveva dichiarato che seguiva una certa pista, una pista abbastanza pericolosa di cui non dovevo parlare con nessuno. Si interessava a certe cose orrende che venivano fatte sulle coste della Somalia, che venivano scaricate sulle nostre coste, sul mare dei rifiuti tossici». Tutte dichiarazioni raccolte dalla Commissione parlamentare presieduta da Carlo Taormina «Non mi parli di commissioni per carità… meglio i magistrati che non fanno niente di chi lavora per screditare l’indagine o inventarsi nuove piste per allungare i tempi. Il fatto è che sono enormi gli interessi e importanti le persone in ballo. I mandanti dell’omicidio di mia figlia sono italiani. O meglio ci sono anche italiani in mezzo. Sono tanti gli indizi ma mancano le prove. E quelle vanno cercate con un’inchiesta seria». Intanto noi di Vivo abbiamo cercato nella vita di Giorgio Comerio. Fra le carte e i fascicoli che abbiamo avuto la possibilità di visionare c’è anche la deposizione di una donna, M.L.N., compagna di Comerio dal 1986 al 1992. Di lei scriviamo solo le iniziali perché ci chiede di non essere «ancora tirata in ballo in questa brutta storia. Sono una persona normale, ho 61 anni, insegno informatica in una scuola di Milano, e voglio solo dimenticare Giorgio Comerio. Se me lo ritrovassi davanti farei finta di non conoscerlo. Quelli con lui sono stati gli anni più brutti della mia vita… ma una donna quando è innamorata non riesce ad essere razionale. A capire». Lei nel 1995 parlò dei traffici di Comerio… «Mi disse di appartenere ai servizi segreti… mi confidò pure che per conto del governo di un paese sudamericano aveva avuto incarico di vendere armi ad altri Paesi». Ma c’è un altro particolare interessante che emerge dalla dichiarazioni di M.L.N, l’amicizia di Comerio con due fratelli italiani da lui stesso definiti “mafiosi”. «Sì … tra la fine del ‘92 e l’inizio del ’93. I contatti c’erano stati per la vendita delle armi». Dichiarazioni, indagini, e morti. Ma nessun processo, nessuna condanna. Tutte le indagini si sono sempre concluse con un nulla di fatto. Nonostante le tracce inconfutabili di patti scellerati, il 14 novembre del 2000, il giudice per le indagini preliminari di Reggio Calabria archivia l’inchiesta scrivendo che «certamente c’è traccia di un disegno criminale di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi ordito da Giorgio Comerio e dai suoi complici, tutti soci della Holding O.d.m. », ma che «mancano elementi che consentano di ricondurre in tale programma l’affondamento delle navi Rigel e Rosso, non essendo emerso che le stesse trasportassero rifiuti radioattivi». E la storia, oggi, rischia di ripetersi.
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