L’acqua è cosa nostra e deve restare pubblica.
L’acqua pubblica nell’urna
di Andrea Palladino
Cento anni ha compiuto ieri Acea. Era l’epoca del sindaco Nathan, ebreo di origine inglese, laico e antipapalino. Fu lui a volere una grande azienda pubblica per la gestione dell’acqua e dell’elettricità nella capitale d’Italia. Ieri, a dieci anni dalla creazione della Spa quotata in borsa, Ratzinger ha ricevuto in udienza i dirigenti di Acea, pronti a fare il grande salto definitivo verso la completa privatizzazione. La via era stata aperta dalla coppia Rutelli-Lanzillotta nel 1999, ed oggi viene completata da Alemanno e dal decreto Ronchi sulla privatizzazione dell’acqua, approvato dal governo Berlusconi alla fine dello scorso anno. Il sindaco di Roma ha dato il suo placet politico, annunciando la cessione di buona parte di quel 51% ancora pubblico.
Benedetto XVI ha evitato accuratamente di parlare di acqua pubblica, mantenendosi molto vago su cosa significhi la gestione privata dei beni comuni. Altri tempi rispetto alla Roma di Nathan. E ben altra chiesa rispetto a quella fuori dalle mura vaticane, che con la voce di padre Alex Zanotelli gridava «maledetti voi» verso chi ha votato per la cessione ai privati delle risorse idriche.
Parodossalmente è lo stesso silenzio del papa a far capire che la partita sulla privatizzazione dell’acqua è però tutt’altro che chiusa. Il Forum italiano dei movimenti per l’acqua sta avviando due iniziative nazionali, raccogliendo l’adesione ampia di interi pezzi della società civile, dal mondo cattolico legato al sociale, fino alle principali associazioni ambientaliste e a parti importanti del sindacato. Un fronte largo, senza i partiti, che entreranno solo con adesioni, per sottolineare l’assoluta trasversalità dei beni comuni.
La prima tappa sarà la manifestazione nazionale del 20 marzo a Roma, una settimana prima del voto, proprio per ricordare come necessariamente la politica debba confrontarsi con i movimenti per l’acqua pubblica. Un mese dopo, in aprile, partirà la raccolta delle firme per il referendum, che non si limiterà all’abrogazione di quella parte del decreto Ronchi che impone la cessione ai privati della gestione delle risorse idriche. Sarà una vera e propria consultazione popolare su un tema chiaro e decisivo: gestione pubblica per tutti i servizi idrici o mantenimento dell’attuale legislazione, con l’apertura al capitale speculativo degli acquedotti. Un si alla ripubblicizzazione, unica strada divenuta oramai percorribile.
Sarà sul referendum che si convoglierà, nei prossimi mesi, il dibattito che va avanti da almeno quattro anni in Italia sul sistema idrico, sui fallimenti delle gestioni private e miste pubblico-private, sugli investimenti che i privati non hanno fatto e che mai faranno, sulla qualità dell’acqua che è peggiorata, con punte allarmanti.
Di certo la questione non è finita con l’approvazione del decreto Ronchi. Il tema della gestione dell’acqua sta entrando prepotentemente nelle prossime elezioni regionali. Prima la Puglia di Vendola, che con coraggio ha approvato una legge d’indirizzo, con l’obiettivo di chiudere la gestione della Spa degli acquedotti pugliesi per arrivare ad un vero sistema pubblico, blindato rispetto ai tanti appetiti speculativi. Poi la regione Lazio, dove in almeno tre province – Roma, Latina e Frosinone – la gestione è di fatto già privatizzata. E in questo caso il nodo centrale è Acea, primo gestore idrico italiano. Ieri Renata Polverini ha chiarito la sua posizione, spiegando che «si tratta di privatizzare il servizio» va tutto bene. Che è poi il contenuto della legge approvata dal centrodestra. Ha così rassicurato il suo scudiero in terra pontina Claudio Fazzone – presidente di Acqualatina – e il suo alleato Udc, molto vicino, come è noto, agli interessi di Caltagirone, principale socio privato italiano di Acea.