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Archivio per la categoria ‘Attività del Comitato’

Strano incidente stradale: in coma il figlio di Francesco Fonti

20 aprile 2010 Commenti chiusi

GLI STRANI INCIDENTI DEI PENTITI CHE PARLANO DELLE “NAVI DEI VELENI

In coma dopo uno starno incidente stradale il figlio del pentito Francesco fonti che parlò di “navi dei veleni”. Pochi mesi fa un altro strano incidente al pentito Di Giovine prima di essere ascoltato dalla Commissione Ecomafie

di Nerina Gatti  – 16 aprile 2010

Fonte: http://www.nerinagatti.com/?p=1031


E’ in coma dopo uno strano incidente stradale il figlio di Francesco Fonti
, il collaboratore di giustizia che per primo aveva parlato dell’ accordo tra ‘ndrangheta, servizi segreti e alcuni politici per lo smaltimento dei rifiuti tossici e radioattivi con le cosìdette “navi dei veleni”.

Il giovane sarebbe finito con una macchina in un burrone, racconta l’avvocato di Fonti Claudia Conidi è ricoverato in terapia intensiva in un ospedale a Torino. “Mi auguro che questo sia solo un tragico incidente – afferma la Conidi- anche se trovo assai inquietante che pochi mesi fa sia capitato un altro strano incidente stradale al mio assistito Emilio Di Giovine, proprio nello stesso giorno in cui comunicò alla Commisione Ecomafie la sua volontà di essere ascoltato sulla vicenda delle navi dei veleni” .

Le dichiarazioni del pentito Emilio Di Giovine, boss del clan Di Giovine – Serraino, potrebbero avvalorare ciò che Francesco Fonti va dicendo da anni. Nel memoriale che consegnò alla Direzione nazionale antimafia nel 2003 e in sede di colloqui investigativi, Fonti aveva parlato anche di traffici di sostanze nocive e nucleari effettuati dal noto trafficante di armi olandese Theodor Cranendonk , che era in affari con i clan Serraino-Di Giovine di Milano. Cranendonk era stato condannato a 10 anni di reclusione nel 1999 dal Tribunale di Milano per aver fornito 30 bazooka alla cosca dei Di Giovine-Serraino, ma era riuscito ad evadere ed è stato arrestato qualche settimana fa a Rotterdam dalla polizia olandese. L’Italia dovrebbe chiederne l’estradizione per finire di scontare la pena. Staremo a vedere.

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Crotone. Tutti contro l’amianto

19 aprile 2010 Commenti chiusi
CROTONE. E’ la prima azione legale di massa che la storia della Calabria ricordi: i lavoratori ammalatisi di cancro per il contatto con l’amianto contro le due principali fabbriche della città. In lotta contro il tempo.

Totò ha i capelli grigi, le mani grosse da lavoratore e una dannata fretta di raccontare. Pedala a passo lento sul corso di Crotone, a poche centinaia di metri dalla Casa della Cultura, dove l’associazione Fabbrikando l’Avvenire ha appena concluso il suo incontro con stampa e cittadinanza. All’ordine del giorno c’è la prima azione legale di massa che la storia di questa città ricordi: unire i lavoratori ammalatisi di cancro per il contatto con l’amianto nelle due principali fabbriche crotonesi (Pertusola Sud, di proprietà Syndial-ENI, e Montecatini, poi acquisita da Enichem) in un’azione legale collettiva contro i loro avvelenatori.

In disperata lotta contro il tempo: quello lungo della giustizia, e quello veloce, e implacabile, della malattia. Per questo, Totò ha fretta. Saluta, e senza preamboli inizia la sua storia: «Io ho lavorato nella fabbrica per trentacinque anni. Nella fabbrica c’era sempre nebbia, e l’aria piena di gas. Tutti sapevano che quel fumo uccideva. Tutti, tranne noi».

Anche lui, come centinaia di altra gente, appena consegnato la sua cartella clinica nelle mani del pool di avvocati volontari di Fabbrikando l’Avvenire: un’associazione di ex operai e membri della società civile, che da qualche anno si è messa in testa di abbattere il muro di gomma che circonda l’ex zona industriale a ridosso del mare, e della città. «Io sono stato già operato tre volte – racconta con spiazzante lucidità – e lo so che le medicine non fanno niente. Ma il problema, avvocà, è che quando ce ne andiamo noi la verità ci segue nella tomba. E allura ti salutu».

Per questo vuole sapere. Chiede insistentemente se la causa inizierà a maggio, o a giugno, e se si saprà qualcosa entro l’anno. «Ma il lavoro da fare – avvertiva poco prima in conferenza stampa Pino Greco, ex operaio di Pertusola Sud e presidente dell’associazione – è ancora tanto». Tutto è cominciato con la produzione di un Libro bianco sull’amianto a Crotone, con cui la sua associazione per la prima volta ha testimoniato la massiccia presenza in città dell’amianto, esponendone i rischi, qui aggravati da una «promiscuità ancora oggi preoccupante – come si legge, all’interno del libro bianco, nella relazione del Responsabile del servizio di prevenzione igiene e sicurezza negli ambienti di lavoro dell’Asp di Crotone – tra l’ex area industriale e la catena di produzione alimentare: campi di coltivazione, caseifici, mercati ortofrutticoli». E poi le case, le prime a un tiro di schioppo. Infine i rischi altissimi per le migliaia di operai e dipendenti dell’indotto che «per otto ore al giorno, e per quarant’anni, sono stati esposti alle stesse sostanze tossiche, a concentrazioni infinitamente maggiori di quanto le stesse non siano a livello ambientale».

Il secondo passo è stato convincere gli ex lavoratori ammalatisi, che il loro risarcimento è un diritto civile: «Abbiamo raccolto centinaia di cartelle cliniche – racconta l’avvocato Iannone – fra i dipendenti che hanno già intentato (e perso) la causa civile contro Pertusola Sud e le altre industrie, e fra quelle persone che, per mancanza di fiducia nella Giustizia, per la psicosi a documentarsi sul proprio stato di salute, o per il dolore privato della malattia in atto, non hanno ancora mai pensato alla possibilità di chiedere un risarcimento».
Per tutti questi motivi, specifica Iannone, «non c’è ad oggi in città una coscienza civica degli ex lavoratori e dei cittadini sull’entità dei danni alla salute e all’ambiente causati dall’amianto in tutti questi anni». Da domani, la loro azione legale sarà triplice: aiutare i dipendenti ammalatisi e i familiari di quelli già deceduti a costituirsi parte civile nei processi penali in atto, fornire nuove prove ai circa duemila procedimenti civili tuttora in corso, e intentare nuove cause per il ristoro dei danni subiti. La salute, quella nessuno potrà riaverla.

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Abruzzo: per la discarica illegale più grande d’Europa 27 in giudizio.

19 aprile 2010 Commenti chiusi

ABRUZZO. Lungo la Roma-Pescara c’è la discarica illegale più grande d’Europa. Contiene 240mila tonnellate di veleni come l’arsenico, in livelli superiori di 56 volte rispetto alla legge, o il mercurio maggiore di 3.780.

di Alessandro De Pascale

Fonte: http://www.terranews.it/news/2010/04/una-valle-oltre-i-limiti

La scoperta di una delle più grandi discariche illegali d’Europa, piena di sostanze tossiche e pericolose risale al 12 marzo del 2007. Quando in seguito a diverse segnalazioni, il Corpo forestale dello Stato la mette sotto sequestro. Una stretta valle piena di veleni, adiacente al polo chimico di Bussi, in provincia di Pescara, sotto i cavalcavia dell’autostrada dei Parchi (A24) che collega Roma con la città costiera abruzzese. Secondo la magistratura, che parla di «un disastro ambientale di immani proporzioni», la responsabilità sarebbe della Montedison, il grande gruppo italiano della chimica. Proprietaria fino al 1999 degli stabilimenti situati a ridosso della discarica di Bussi, in Val Pescara, oggi venduti alla Solvay.
Tanto che questa settimana si è aperto il processo, il più importante su reati ambientali e responsabilità d’impresa, dopo quello di Porto Marghera. Gli imputati sono 27 tra cui 19 tra responsabili, amministratori delegati e direttori della Montedison. Per loro i reati contestati sono avvelenamento delle acque e disastro ambientale. Sotto processo anche vari funzionari pubblici che avrebbero omesso alla popolazione il grave inquinamento, provocato dai veleni, delle falde acquifere della zona. Fino al 2008 convogliate nella rete idrica di tutti i comuni della Val Pescara. Secondo una prima stima approssimativa quei terreni nascondono almeno 240mila tonnellate di materiali altamente inquinanti e nocivi, principalmente scarti di lavorazione degli stabilimenti chimici.

Il problema, spiega Italia Nostra, parte civile nel processo assieme a molte altre associazioni ambientaliste, è che «nell’area risultano essere presenti falde acquifere che scorrono pochi metri al di sotto del piano di appoggio della discarica abusiva». Che contiene tutte le più pericolose sostanze tossiche e in grandi quantità. Giusto per fare un esempio è stato trovato arsenico con valori superiori di 56 volte al limite consentito. Il Mercurio di 3.780 volte, il triclorometano con livelli fuori norma di tre milioni di volte. Ma c’è anche piombo, zinco, idrocarburi e solventi organici clorurati. La preoccupazione della popolazione è proprio l’inquinamento del suolo e del sottosuolo, iniziato negli anni Sessanta. Anche perché una volta scoperta la mega discarica, grande oltre quattro ettari, a venti metri dalla riva del fiume Pescara, la bonifica e la messa in sicurezza dei luoghi non è ancora stata fatta. La gente che vive nella valle ha paura. Per decenni potrebbe aver bevuto acqua contaminata, vivendo a contatto con una bomba ecologica. Per le associazioni ambientaliste «anche in assenza di un riconoscimento formale di responsabilità, Montedison dovrebbe comunque essere investita del procedimento di bonifica».

Sulla base del decreto legislativo 152 del 2006 che recependo i principi comunitari in materia di tutela ambientale stabilisce che «chi inquina paga». La stessa legge prevede inoltre che in caso di inerzia del responsabile «è obbligo della pubblica amministrazione attivarsi e intervenire direttamente, senza passaggi intermedi e senza dover compiere attività o verifiche ulteriori». La valle insomma plaude all’inizio del processo, per l’avvelenamento la prescrizione scatterà nel 2015 mentre per gli altri reati minori dal 2010, ma prima di tutto bisogna salvaguardare la salute delle persone.

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Il Comitato De Grazia aderisce alla campagna referendaria acqua pubblica

17 aprile 2010 Commenti chiusi

“L’Acqua è un bene comune è deve restare pubblica”

Il Comitato Civico “Natale De Grazia” aderisce alla “campagna referendaria acqua pubblica” e parteciperà alla costituzione del comitato referendario provinciale che sarà ufficializzata martedì prossimo a Cosenza.

Il De Grazia ha dato disponibilità ad essere l’organismo referente di Amantea e, se necessario, del comprensorio, avendo degli attivisti nei comuni di Belmonte Calabro, Aiello Calabro, e Cleto.

I volontari saranno impegnati nella raccolta delle firme dal 24 aprile al 4 luglio e contribuire così al raggiungimento delle 500mila firme necessarie, a livello nazionale, per promuovere il referendum abrogativo di quelle norme che, nella sostanza, fanno diventare l’acqua che sgorga dai rubinetti delle nostre case un bene “privato” su cui poter lucrare.

Per promuovere il concetto di “acqua bene comune” e far conoscere i tre quesiti referendari su cui i cittadini, saranno poi chiamati ad esprimersi, saranno organizzati degli incontri pubblici, uno dei quali già in programma per i primi giorni di maggio insieme alla CGIL di Amantea e tutte quelle realtà cittadine che vorranno aderire e partecipare, poiché si tratta di una battaglia di civiltà, che interessa tutti e da cui nessuno si deve sentire escluso.

Il comitato ha intenzione, inoltre, di proporre al consiglio comunale che è tornato ad amministrare la città, la modifica dello statuto comunale con l’inserimento di una specifica formulazione che definisca il servizio idrico integrato quale servizio pubblico locale privo di rilevanza economica.

Le nuove norme introdotte dal Governo nazionale e approvate in Parlamento introducono alcune modifiche all’art. 23 bis della Legge 133/08 muovendo passi ancora più decisi verso la privatizzazione dei servizi idrici e degli altri servizi pubblici locali, prevedendo l’obbligo di affidare la gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite. Tale provvedimento sottrarrà ai cittadini ed alla sovranità delle Regioni e dei Comuni l’acqua potabile del rubinetto, il bene più prezioso, per consegnarlo, a partire dal 2011, agli interessi delle grandi multinazionali e farne un nuovo business per i privati.

Padre Alex Zanotelli simbolo dei movimenti per l'acqua (Amantea 24 Ottobre 2009)

Oltre a sottolineare che l’acqua è un bene primario, un diritto umano universale che appartiene a tutti e su cui non si può e non si deve lucrare, si ricorda che in quei comuni, che hanno affidato la gestione dell’acqua ai privati, i cittadini si sono trovati a pagare delle bollette sproporzionate ai consumi, con cartelle che in alcuni casi hanno raggiunto il 300% degli importi pagati dai cittadini dei comuni limitrofi con gestione pubblica dell’acqua.

Amantea, 17 aprile 2010

Comitato Civico “Natale De Grazia”

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“Il carbone pulito di Civitavecchia uccide”

15 aprile 2010 Commenti chiusi

Sergio Capitani, 34 anni, è morto nella centrale ENEL di Civitavecchia in un incidente sul lavoro. Questo è il comunicato dell’associazione No coke Tarquinia.

Chi ha ucciso il giovane di Tarquinia? 
Un tubo scoppiato o chi vuole bruciare carbone a tutti i costi contro il volere dei cittadini del comprensorio? Vogliamo considerare la tragedia una fatalità o vogliano analizzare le condizioni che hanno determinato questa circostanza?

Civitavecchia, centrale Enel (foto Antonino Monteleone)

Civitavecchia, centrale Enel (foto Antonino Monteleone)

Hanno scritto commenti miserevoli sul mancato rispetto delle norme di sicurezza da parte dei lavoratori, siamo certi, finiranno per insinuare che la responsabilità è di chi c’è morto. 
La verità è più semplice e più tragica, quella è la fabbrica della morte frutto di un sistema clientelare, voluta dagli affaristi del carbone e sostenuta con forza dai politici per poi prendere i soldi delle compensazioni.La centrale a carbone nessuno la vuole, i cittadini non la vogliono, la salute non la vuole, l’ambiente non la vuole. 
La lotta contro la riconversione a carbone di TVN non ha avuto sosta in questi 10 anni caratterizzati da manifestazioni di piazza contro lo scempio del carbone, da  denunce dirette a ministri e ministeri, dalla raccolta di migliaia di firme per referendum e petizioni popolari Europee.

Poi c’è chi muore, come è accaduto a Sergio, nel tragico giorno prima della Pasqua.
 Il lutto dei cittadini è sincero. 
Inaccettabile il cordoglio del sindaco di Tarquinia.
 Da una parte prende i soldi del carbone, degli accordi economici con Enel e dall’altra vorrebbe esprimere cordoglio e, come in una tragica beffa,  si vorrebbe costituire parte civile per la morte dell’operaio. 
Con una mano vorrebbero continuare a prendere i soldi e con l’altra denunciare chi li foraggia, ma dove è finita la dignità?

Quella è la centrale della morte due volte: al suo interno muoiono gli operai vittime di un ambiente di lavoro poco sicuro e della fretta di finire, all’esterno muoiono i cittadini vittime del micidiale inquinamento del carbone.
 Morti annunciate dalla protesta di un territorio che chiede giustizia e rispetto e che invece riceve in cambio denunce, diffamazioni e falsità.

Povera Tarquinia, poveri i nostri figli!

Le polveri killer note da 25 anni

articolo di Andrea Paladino pubblicato da “Il Manifesto” il 7 aprile 2010

Ieri lo sciopero di otto ore, dopo la morte di Sergio. «Un disastro annunciato», denunciano gli operai. Il sindaco dispone la chiusura per quindici giorni della centrale «per accertamenti sulle misure di sicurezza». Il no dell’azienda allo stop della produzione. Mentre nel registro degli indagati della Procura compaiono anche 7 dirigenti Enel IL DOSSIER Amianto e ammoniaca nelle relazioni Asl
I pericoli della centrale elettrica dell’Enel di Civitavecchia erano conosciuti, da almeno 25 anni. Documentati, nero su bianco, da diverse ispezioni delle autorità sanitarie locali, fin dagli anni ’80, quando all’azienda vennero contestate diverse violazioni sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Forse troppo blandamente, visto che per sette anni, nonostante il pericolo fosse noto, i lavoratori hanno continuato a respirare amianto, rischiando il mesotelioma, la terribile neoplasia che non lascia scampo. Ed oggi alcuni di loro sono già morti, in silenzio, prima che qualcuno potesse rendere giustizia, mentre tanti altri rischiano a loro volta di ammalarsi.
Il documento riprodotto in queste pagine è datato 7 ottobre 1985, ed è il risultato di una ispezione degli impianti Enel del 30 settembre e del 2 e 7 ottobre dello stesso anno. Incredibilmente accanto alla rilevazione della presenza di polveri, non controllate, già allora all’Enel veniva contestato anche il rischio legato ai vapori di ammoniaca: «(…)Si sviluppano e si diffondono nell’ambiente di lavoro vapori di ammoniaca», spiegavano gli ispettori. La stessa sostanza che ha ucciso la settimana scorsa Sergio Capitani, l’operaio di 34 anni che stava effettuando una manutenzione degli impianti. Un pericolo, dunque, ben noto da tempo.

Comitato "no coke tarquinia"

Sono le polveri, però, il vero killer della centrale di Civitavecchia. Particelle di amianto che fino al 1993 – secondo la documentazione consultata da il manifesto – erano presenti e non completamente controllate negli impianti e nelle zone dove hanno lavorato per decenni centinaia di operai. Il pericolo della diffusione delle fibre di amianto era noto già nel 1985. In un altro rapporto della azienda sanitaria locale, redatto dopo un’ispezione del 5 e del 7 giugno 1985 – gli ispettori segnalavano che nell’impianto vi era «un insufficiente isolamento del luogo di lavoro, con conseguente dispersione di polveri d’amianto all’esterno della zona delimitata fino a raggiungere valori limite superiori a quelli previsti dalla Direttiva Cee n. 477 del 19.9.83». La presenza delle fibre era talmente alta da raggiungere «una concentrazione all’interno dell’area delimitata estremamente elevata fino a 10 volte la massima concentrazione prevista dalla medesima direttiva, con inadeguata protezione dei lavoratori che vi operano». E – continuano gli ispettori della Asl – nella centrale di Civitavecchia vi era «un sistema di decontaminazione inadeguato dei lavoratori». Ovvero il rischio di respirare le polveri e fibre d’amianto, disperse nell’aria durante la manutenzione dell’impianto e – in alcuni caso – durante il normale funzionamento, era elevatissimo.
Il pericolo legato alle fibre killer è proseguito almeno fino al 1993. L’otto gennaio del 1996 la Asl di Civitavecchia firma la «Relazione sull’attività di vigilanza per i rischi da esposizione ad amianto dei lavoratori Enel». «Nel periodo settembre 1990 – luglio 1991 sono stati effettuati numerosi campionamenti (55) e solo in 5 casi si sono ottenuti valori compresi tra 16 e 46 fibre a fronte di un limite previsto dalla legge 277 del 91 pari a 200 fibre litro”» si legge nel documento. Anche dopo l’entrata in vigore della legge 277 del 1991 – che prevede l’innalzamento delle protezioni contro l’amianto – la situazione, secondo la Asl di Civitavecchia, non migliora. «Nel 1992 (28, 29 e 30 agosto) sono stati accertati nella zona “decontaminata” valori fibra/litro di 439, 350 e 170; ancora nel 1993 all’interno delle zone in cui venivano eseguite le attività di scoibentazione sono stati rilevati valori pari a 6.000/7.000 fibre/litro; nello stesso anno durante lavori di scoibentazione del frontale bruciatori in un caso nella zona incontaminata sono stati trovati valori di 470 fibre/litro e nella zona deposito sacchi valori di 145/130 fibre/litro; sempre nello stesso anno, al termine dei lavori all’interno della zona isolata, dopo lavori di pulizia sono stati trovati valori di 242 fibre/litro». Tutti valori rischiosi per i lavoratori della centrale.
Sono passati quasi vent’anni dall’ultimo dei rapporti sulla presenza di amianto nella centrale di Civitavecchia e alcuni lavoratori sono morti di mesiotelioma, ovvero una neoplasia incurabile che deriva direttamente dall’esposizione alle fibre di amianto. Operai che per decenni sono stati esposti a pericoli che erano ben conosciuti e documentati, tanto da finire nei rapporti degli ispettori del lavoro. Oggi la centrale è ferma e i gestori dell’impianto si trovano nella scomoda posizione di indagati per omicidio colposo, per la morte di Sergio Capitani. Una storia lunga di morti sul lavoro, che potrebbe non essere finita.

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La pattumiera siberiana delle scorie francesi

15 aprile 2010 Commenti chiusi

Fonte : http://www.qualenergia.it/view.php?id=1358&contenuto=Articolo

A Tricastin Greenpeace blocca l’uranio impoverito diretto in Russia. Nell’ex-URSS dovrebbe essere riprocessato, ma in realtà rimane abbandonato in depositi a cielo aperto. La Francia, il paese dell’atomo per eccellenza, con cui domani l’Italia firmerà l’accordo di collaborazione sul nucleare, ancora non ha risolto il problema scorie.

Ancora bufera sulla questione delle scorie nucleari in Francia. Agli ambientalisti non va giù che il paese leader mondiale dell’atomo (nonché guida del rinascimento nucleare italiano) ancora non sappia dove mettere questi rifiuti pericolosi e non trovi di meglio che inviarli, senza garanzie di sicurezza, in Russia, usata - denuncia Greenpeace – come una vera e propria “pattumiera dell’atomo”.

Gli ultimi sviluppi della battaglia sono di questa settimana: martedì mattina attivisti di Greenpeace hanno divelto le rotaie che partano dalla centrale di Tricastin, per impedire che l’uranio impoverito arrivi al porto di Le Havre, dove lo attende la nave russa Kapitan Kuroptev per portarlo nell’ex-Unione Sovietica. Subito Areva ha risposto per vie legali e il tribunale è intervenuto contro gli ambientalisti per impedire loro di interferire nel trasporto del combustibile esausto.

Ecco che sulle pagine dei giornali (solo francesi per ora) torna una storia che getta l’ennesima ombra sulla gestione delle scorie nucleari in Francia. Su queste pagine avevamo raccontato dell’inchiesta sui 300 milioni di tonnellate di detriti radioattivi abbandonati e utilizzati nel paese per realizzare terrapieni, strade e parcheggi (Qualenergia.it, La Francia contaminata). Questa volta sotto accusa è invece la filiera a valle delle centrali, che si perde oltre confine, nelle steppe siberiane.

A denunciare che qualcosa non andava in quell’export di combustibile esausto a oriente erano stati un’inchiestatelevisiva di Arte Channel e un articolo di Liberation, usciti quest’autunno: il 13% del combustibile esausto del gigante francese dell’atomo – si denunciava – finisce abbandonato nelle steppe siberiane, stoccato a cielo aperto. Rivelazioni corredate dalle immagini aeree dei depositi delle scorie a Seversk in Siberia (ossia Tomsk-7, sito peraltro già pesantemente contaminato da incidenti nucleari in epoca sovietica).

Depositi scorie a Seversk in Siberia

Per Areva – che non ha confermato né smentito le accuse – in Russia finisce solo l’uranio riutilizzabile, per essere arricchito e poi tornare in patria. Secondo l’azienda, con il riprocessamento si riuscirebbe a riutilizzare fino al 96% del combustibile esausto. Ma i numeri raccontano una versione diversa: delle 33mila tonnellate di uranio inviate dalla Francia nell’ex URSS dal 2006 al 2009 solo poco più di 3mila hanno fatto ritorno in patria arricchite.

“Le 30mila tonnellate mancanti – denuncia Greenpeace – restano abbandonate a tempo indeterminato in luoghi come Seversk: la Russia non ha la tecnologia per riprocessare l’uranio esafluoruro (UF6, ndr) che costituisce la maggior parte delle scorie inviate. Il contratto di EDF-AREVA viola le leggi russe e i depositi, come rilevato dalla Rostechnadzor (l’agenzia federale che supervisiona la produzione di combustibile nucleare), non rispettano le norme di sicurezza.”

Insomma: “il riprocessamento – denuncia l’associazione – è solo una trovata di comunicazione per coprire il fatto che si scaricano le scorie a terzi. Ciò dimostra ancora una volta la completa inadeguatezza dell’industria a gestire i pericoli dei rifiuti nucleari”. Cosa succederà quando (e se) sarà l’Italia a dover mettere in sicurezza nuove scorie? Intanto l’esperienza con il decommissioning delle centrali del passato promette male (Qualenergia.it, Il disastro dell’eredità nucleare italiana su Report).

Speriamo che nell’accordo di collaborazione che Italia e Francia firmeranno domani a Parigi la questione venga affrontata adeguatamente: vi si prevede, tra le altre cose, che sulla gestione del ciclo dei rifiuti nucleari, Sogin collabori con l’agenzia francese Andra, sulla sicurezza Ispra con l’Asn (intesa che verrà poi trasferita alla futura Agenzia italiana), mentre Enel e Isrn si occuperanno di protezione dalle radiazioni e Cirten e Areva di formazione e specializzazione del personale.

8 aprile 2010

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Il 19 aprile i carotaggi nel fiume Oliva

13 aprile 2010 Commenti chiusi

Fiume Oliva. La Briglia

Amantea - Ormai manca poco meno di una settimana all’inizio dei lavori di carotaggio nel fiume Oliva. La data prevista dalla procura di Paola è il 19 aprile.
Alcuni problemi tecnici hanno ritardato l’inizio dei lavori previsti per i primi giorni di febbraio. Anche il maltempo ha condizionato il lavoro dei tecnici e problemi burocratici, come il ritardo nella consegna dei risultati di alcune indagini preliminari, hanno fatto slittare ulteriormente i tempi di azione.
Ma, come si suol dire “non tutti i mali vengono per nuocere”. Lo slittamento dei tempi infatti ha permesso agli inquirenti di approfondire i lavori preventivi di indagine riuscendo ad individuare almeno altre due siti sospetti sui cui estendere i carotaggi.

Ma cosa è stato fatto da ottobre fino ad oggi?

Nei primi giorni di novembre è iniziato il piano di caratterizzazione eseguito dal Ministero dell’Ambiente attraverso l’ISPRA. Il Piano di Caratterizzazione rappresenta l’insieme delle attività di indagine utili a definire lo stato reale della contaminazione. La procedura si attiva quando i valori di concentrazione di alcune sostanze superano i valori limite, definita “soglia di contaminazione”. A queste attività hanno partecipato a vario titolo l’Arpacal, l’Arpa Piemonte, l’Arpa Lombardia e varie università.

Sono state effettuate delle indagini radiometriche superficiali sul suolo e indagini geofisiche per capire la qualità di terreno esaminato e le sostanze che lo compongono. Si è proceduto poi alla ricostruzione storica delle attività produttive svolte sul sito addivenendo alla definizione ambientale del suolo, del sottosuolo e delle acque, per poi decidere in quali punti precisi è necessario effettuare i carotaggi, ovvero l’asportazione di campioni di terreno.

Contestualmente il Corpo Forestale dello Stato, che collabora nelle indagini, ha controllato a tappeto tutto il bacino idrografico del torrente Oliva con un magnetometro per verificare l’eventuale presenza di materiale ferroso nel sottosuolo, indicazione dell’eventuale presenza di fusti metallici. E’ stato utilizzato un elicottero della forestale per rilievi termici, ovvero per controllare la temperatura del suolo e verificare se ci fossero delle anomalie come quelle riscontrate nella cava “radioattiva”, dove la temperatura del suolo supera di 5/6 gradi quella del territorio circostante. Sono stati effettuati anche dei rilievi sul tracciato stradale che costeggia i quattro siti contaminati già posti sotto sequestro (briglia del fiume, località Foresta, località Carbonara, cava dismessa) in modo particolare nei pressi della galleria che permette di raggiungere dal litorale tirrenico,  il comune di Aiello Calabro, per sfatare il dubbio che durante i lavori di costruzione della strada (risalente agli anni ’90) non sia stato utilizzato il rilevato stradale per seppellirvi rifiuti pericolosi così come già successo in Somalia (dove Ilaria Alpi e Miran Hrovatin avevano il sospetto che sotto il tracciato della strada Garoe-Bosaso, costruita con i fondi della cooperazione italiana, fossero stati seppelliti rifiuti tossici e nocivi).

Tutte queste indagini sono necessarie per programmare le attività di carotaggio che sarà condotto da una ditta di Matera che ha vinto l’appalto indetto dal Ministero dell’ambiente.
Questa ditta si occuperà esclusivamente dei lavori di carotaggio (prelievo di terreno) e degli eventuali scavi che si renderanno necessari, ma non farà nessun tipo di analisi. I campioni di terreno prelevati durante il carotaggio saranno affidati a tre laboratori che effettueranno, in modo autonomo l’uno dall’altro, sia analisi radiometriche, che chimiche.  Sugli stessi campioni di terreno anche alcuni istituti di ricerca universitari faranno delle analisi radiometriche. Tutti i risultati saranno inviati alle Istituzioni che lavorano sul caso: Procura di Paola, Ministero dell’Ambiente e Regione Calabria.

Fiume Oliva - La briglia dall'alto - 31 gen. 2010

Anche sulla briglia alla cui base risulta presente un sarcofago di cemento armato pieno di mercurio ed altri metalli pesanti, non si è potuto operare fino ad oggi per l’eccessiva portata di acqua del fiume (come si può vedere nella foto a lato). Anche se attualmente il torrente è pressoché in secca, il corso dell’acqua sarà comunque deviato per permettere ai tecnici di lavorare in tranquillità.

Fino ad oggi il meglio della tecnologia e delle professionalità pare siano state impiegate, ma fra qualche giorno la parola passerà agli esperti in laboratorio che ci diranno, si spera in modo chiaro, univoco e veritiero, cosa si “nasconde” nel fiume Oliva.

Gianfranco Posa

13 aprile 2010

TEN 15.03.2010: Fiume Oliva – Nuovi sequestri

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C’è una “nave dei veleni” al largo di Vibo Valentia?

10 aprile 2010 Commenti chiusi

«L’assessore regionale all’Ambiente della Calabria, Silvio Greco, ci ha segnalato che nel golfo di Lamezia Terme ci sarebbe una nave affondata che potrebbe corrispondere ad una di quelle descritte dal pentito Francesco Fonti, ma al momento non abbiamo elementi». Lo ha detto il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti, Gaetano Pecorella, parlando del fenomeno delle «navi dei veleni».

«Prima di procedere ad operazioni costose come quelle condotte sul relitto di Cetraro che è risultato essere di una nave passeggeri abbiamo bisogno di raccogliere altri dati», ha sostenuto Pecorella che ha guidato la commissione anche in una missione in Basilicata. «Sulle navi dei veleni – ha proseguito – stiamo cercando di verificare le dichiarazioni di Fonti. Abbiamo anche cercato i 100 fusti dell’Enea di Rotondella (Matera) ma in fase di verifica, le dichiarazioni di Fonti sono state inconcludenti. Il nostro obiettivo è quello di non lasciare alcun punto senza verifica perchè la vicenda ha provocato un grave danno all’immagine della Calabria ed il nostro impegno è finalizzato a stabilire se ci sono elementi per dire che le preoccupazioni sono fondate oppure no».

Sul ruolo dei servizi segreti nella vicenda, Pecorella ha sostenuto che la Commissione ha chiesto di sapere se abbiano avuto un qualche ruolo e che i servizi stanno predisponendo la documentazione da inviare alla Commissione. «Risulta – ha aggiunto – che un testimone che parlato di interferenze dei servizi nella vicenda della motonave Jolly Rosso, spiaggiata ad Amantea (Cosenza) nel 1990, in particolare sullo smaltimento dei fusti che trasportava, ma, al momento, non abbiamo avuto riscontri».

Infine Pecorella ha reso noto che la Capitaneria di porto di Crotone ha informato la Commissione che ci sono due navi affondate al largo di Cirò e di Capo Spartivento (Reggio Calabria) oltre ad altri sette relitti, ma tutte conosciute e che sembrano non corrispondere a quelle descritte da Fonti che aveva parlato di una trentina di navi cariche di rifiuti tossici e nocivi fatte affondare al largo delle coste calabresi.

(ANSA 11 marzo 2010)

Guarda il servizio sulla conferenza stampa della Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti

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Audizione “Ignazio Mezzina & C. Spa” in Commissione ecomafie

10 aprile 2010 Commenti chiusi

Audizione di Andrea Gais rappresentante della società Ignazio Messina & co. Spa da parte della Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti

fonte: http://www.radioradicale.it/scheda/300541#int2439351,104,203

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Confermata la presenza di container nei fondali di Livorno

9 aprile 2010 Commenti chiusi

I veleni di Livorno
FONTE: http://www.gliitaliani.it/2010/04/i-veleni-di-livorno/

Sulla presenza di container nel mare di Livorno sarebbero stati trovati nuovi riscontri
Le indagini iniziarono dopo la denuncia, nel 2009, dell’equipaggio di una nave ambientalista, che parlò dello scarico di materiali vicino all’Isola d’Elba

di Vincenzo Mulè

Nove mesi per avere la conferma di quanto si sapeva già da luglio. Nove mesi per cercare di capire quello che sembrava già chiaro grazie ad una serie di istantanee scattate da un’altra barca. Ieri, finalmente, la prima dichiarazione ufficiale. Forse la più importante. Il procuratore di Livorno Francesco De Leo ha infatti confermato la presenza di almeno un container sul fondo del mare, al largo dell’isola d’Elba.

Sembrerebbe l’epilogo di una storia finita sulla stampa già lo scorso luglio, quando Legambiente diede voce alla denuncia dell’equipaggio della nave ambientalista tedesca Thales, che dichiarò di aver visto un portacontainer scaricare materiali tra la costa livornese e l’isola d’Elba. Era la nave Toscana, battente bandiera maltese e proveniente dal Perù.

Una vicenda rimasta, però, in sospeso nonostante l’individuazione da parte della nave oceanica della Nato Alliance di un “bersaglio” a circa 120 metri di profondità. Quello di ieri, invece, rischia di diventare la prima puntata di un’altra storia. Fatta di insabbiamenti, di italianissime deficenze e di minacce. Una storia che inizia il 9 luglio scorso, a circa 10 miglia a nord del porto di Marciana Marina, all’isola d’Elba, quando l’equipaggio dell’imbarcazione tedesca MS Thales incrocia una nave portacontainer stranamente ferma in mezzo al mare con segni inequivocabili di attività di scarico di materiale utilizzando le gru di bordo.

Il tutto in pieno Santuario internazionale dei mammiferi marini Pelagos. La MS Thales che svolge crociere nell’ambito del progetto internazionale Green Ocean e ha con Legambiente una collaborazione all’interno del progetto Plastic from the sea scatta alcune foto (in quella che pubblichiamo sono evidenti le posizioni non a riposo, delle gru) che dimostrano la strana attività lavorativa in alto mare della porta-container Toscana proveniente da La Valletta, Malta.

Che l’attività oltre che ad essere strana fosse anche molto sospetta lo dimostrano anche i successivi tentativi di speronamento che, stando alla denuncia dell’equipaggio tedesco, sarebbero stati messi in atto dalla nave per intimidire la Thales. Tanto da costringerla a un repentino cambio di rotta e a trascorrere forzatamente quattro giorni in Corsica, per giunti bloccati dal maltempo.

Porto di Livorno

Sulla vicenda, la procura di Livorno avviò un’inchiesta. Anche perché, nel frattempo Francesco Fonti, il pentito di ‘ndrangheta che per primo rivelò l’esistenza di traffici di rifiuti nel Mediterraneo, aveva raccontato come Livorno fosse il crocevia degli affari. Dove, quasi fosse un gioco ad incastri, armi, droga e rifiuti tossici e pericolosi seguivano le stesse vie, coprendosi a vicenda. Terra è in possesso della lettera che Fonti, tramite il suo avvocato Claudia Conidi, spedì al procuratore di Livorno De Leo.

Sarebbe proprio l’Italia, secondo Fonti «il vero centro del traffico di armi e di droga e rifiuti tossici e nucleari». Nel nostro Paese arrivavano da ogni parte del mondo, tramite il perverso legame tra politica, servizi segreti e criminalità organizzata «le richieste di ogni tipo di armamenti, dalle pistole alle tecnologie nucleari assieme a grandissime quantità di eroina e di cocaina». Le contrattazioni internazionali fra i trafficanti avvenivano in Bulgaria all’hotel Giapponese di Sofia e all’hotel Marmara di Monaco di Baviera.

«Con il grande traffico di eroina trasportato dalle navi, esse ritornavano dall’Italia con i rifiuti che venivano affondati, oppure viaggiavano per destinazioni africane» si legge nella lettera. Quattro i riferimenti e i nomi che Fonti ha rivelato a De Leo. Due di questi sono spedizionieri di Livorno.

9 aprile 2010

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