NAVI A PERDERE, UN INTRIGO INTERNAZIONALE
Cosa si nasconde dietro il mancato ritrovamento della Cunsky? Un network globale di mafiosi, mediatori, grandi aziende e governi conniventi. Un’anticipazione di «Bandiera nera», in libreria per Manifestolibri
di Andrea PALLADINO
Se il relitto in fondo al mare di Cetraro non è la Cunski, occorre domandarsi se gli eventi che hanno portato al suo ritrovamento siano casuali o meno. Non è dietrologia, non è complottismo: troppi dettagli, in realtà, non tornano e formano un quadro che deve essere visto nel suo insieme. Francesco Fonti ha elencato tre navi affondate – secondo lui – nel 1992, con diversi carichi di rifiuti tossici: la Cunski, la Yvonne A e la Voriais Sparadis. Tre navi che nel 1992 si chiamavano rispettivamente Shahinaz, Adriatico I e Glory Land. Anzi, l’ultima della lista (l’ex Voriais Sporadis), dopo essere stata rinominata Glory Land, è affondata nel mar della Cina il 20 gennaio del 1990. Si è dunque sbagliato Francesco Fonti? La sua dichiarazione va analizzata meglio.
L’unico anno in cui le tre navi hanno – esattamente e nello stesso momento – il nome riportato da Fonti è il 1988. I vascelli cambiano nome molto spesso, soprattutto quando passano da una società ad un’altra. Le tre imbarcazioni che sarebbero state affondate dalla ‘ndrangheta al largo delle coste calabresi hanno in realtà un elemento in comune: insieme alla Jolly Rosso – altra incredibile coincidenza – furono utilizzate tra il 1988 e il 1989 per una gigantesca operazione di trasferimento di rifiuti tossici da Beirut verso l’Italia. Ed è un periodo cruciale nella storia degli infiniti traffici criminali di rifiuti. È l’apice del traffico internazionale di scorie tossiche che parte dall’Italia per arrivare – dopo rotte tortuose e avventurose – sulle spiagge dei paesi più poveri e quindi più ricattabili economicamente.
Nel 1988 in Libano le autorità ricevono una denuncia di un enorme carico di rifiuti tossici venuti dall’Italia un anno prima. Fu considerato il principale scandalo ambientale degli anni ’80, tanto da servire come stimolo per la definizione della convenzione di Basilea del 1989 che proibisce l’esportazione incontrollata dei rifiuti. Il carico, che era stato organizzato dalla società di Opera, vicino Milano, la Jelly Wax, diretta all’epoca da Renato Pent, era composto – secondo un report di Greenpeace dell’11 maggio 1995 – da 15.800 barili e 20 container, con pesticidi, esplosivi, solventi, farmaci scaduti e metalli pesanti. La Jelly Wax era una vera esperta in questo tipo di affari ed aveva organizzato nello stesso anno il viaggio della Lynx, facendo da intermediario con decine di industrie chimiche del nord Italia. Un modo per ridurre oltremodo i costi di smaltimento, spedendo carichi pericolosi verso paesi che si pensava li accettassero senza andare per il sottile.
L’operazione libanese del 1988 in realtà non andò in porto. Il governo italiano venne chiamato dalle autorità locali e di fatto costretto a riprendersi il carico indesiderato. Il 23 agosto arriva a Beirut una delegazione di esperti, guidata da C. F. rappresentante all’epoca della società Mont.eco del gruppo Montedison, ed oggi presidente della Anida, associazione di Confindustria delle imprese di servizi ambientali e arrestata il 20 ottobre 2009 insieme all’imprenditore Giuseppe Grossi dalla Procura di Milano per lo scandalo della bonifica di Santa Giulia – per organizzare il viaggio di ritorno delle scorie portate in Libano. Dopo pochi giorni attracca nel porto di Beirut «il mercantile jugoslavo Cunski – raccontò ai giornalisti C. F. – con a bordo materiali e attrezzature per la bonifica». Fu dunque la Cunski una delle navi coinvolte ufficialmente nel recupero delle scorie.
Nel recupero, però, risultarono utilizzate anche altre navi, secondo gli studi effettuati da Greenpeace: la Jolly Rosso – poi arenatasi al largo di Amantea – e le altre due navi citate dal collaboratore Francesco Fonti, la Voriais Sporadis e la Yvonne. Le accuse di Greenpeace vennero smentite dal governo italiano nel 1995. Per l’allora ambasciatore italiano Carlo Calia, l’unica nave coinvolta era la Jolly Rosso. Ma sembrano oggi esistere altri indizi che rafforzerebbero l’ipotesi del coinvolgimento delle altre navi. Un documento dell’assemblea generale delle Nazioni unite del 18 luglio 1989 riporta, ad esempio, una denuncia venuta dalle autorità egiziane sull’affondamento della nave “Yvon” nel mediterraneo, dopo aver lasciato il porto libanese con un carico di rifiuti. Lo stesso coinvolgimento della Cunski nell’operazione di bonifica era stato affermato – come già detto – dagli esperti italiani giunti a Beirut nell’agosto del 1988. Francesco Fonti poteva conoscere i dettagli di questa storia? Ha forse usato i nomi di queste tre navi per mandare un messaggio che potesse essere capito da qualcuno? O, ancora una volta, è solo un caso? Per una serie di fortunate coincidenze la storia di Cetraro si sposta però nel Libano della guerra civile. Tra rotte dei veleni e affari lucrosi.
La pista libanese
Il 18 febbraio del 1988 un rappresentante della società milanese Ecolife si presenta davanti al console del Libano in Italia. Ha un documento in mano, una pratica banale di autenticazione di un contratto firmato dalla società di Beirut Adonis Productions Engineering. Il console guarda il documento e l’occhio gli cade sull’indirizzo: gli uffici della società si trovano in una zona della capitale distrutta dalla guerra civile. Osserva allora meglio le carte che l’avvocato della Ecolife gli messo sul tavolo: il simbolo del paese dei cedri – come è chiamato il Libano – è palesemente falso. Al posto dell’albero profumato c’è il disegno di un comune pino… Leggendo, poi, il contratto il console si accorge che è pieno di errori di ortografia e di grammatica. Insomma, è un falso clamoroso, un guazzabuglio che sembra uscito da un gruppo di falsari alla Totò e Peppino.
Il console libanese chiama da Milano il ministero degli affari esteri del paese dei cedri. Vuole capire meglio cosa stia accadendo, visto che quel contratto palesemente falso parla di rifiuti. A Beirut il governo inizia a ricostruire la complessa vicenda.
Il 21 settembre 1987 una nave cecoslovacca, la Radhost, era sbarcata nel porto di Beirut, scaricando 15.800 fusti e 20 containers. Ufficialmente si trattava di materiale sfuso per usi agricoli e industriali. Il controllo in dogana fu molto rapido e sommario e il contenuto fu subito trasferito in località segrete. Tutta la procedura era stata seguita da Roger Michel Haddad, funzionario della Arman Nassar Shipping, la compagnia che si celava dietro la Adonis del pino fatto passare per un cedro a Milano.I barili, una volta giunti nei piccoli paesi nei pressi di Beirut, erano stati svuotati e il contenuto venduto come fertilizzante. Alcuni fusti furono ridipinti alla meno peggio, riempiti d’acqua e rivenduti a 5 dollari l’uno, avvelenando centinaia di persone.
Ci volle qualche mese per scoprire che in realtà i 15.800 fusti contenevano veleni mortali. Il carico era stato organizzato nel 1987 dalla Jelly Wax. Il broker di rifiuti nel 1987 era riuscito ad organizzare almeno due grandi carichi. Quello stivato sulla Radhost era il secondo e inizialmente era diretto in Venezuela, a Puerto Cabello, dove nel marzo del 1987 era già arrivata l’altra nave proveniente dall’Italia, la Lynx. Il porto di partenza nei due casi era Marina di Carrara.
Il 26 luglio 1988 il procuratore di stato libanese Hamdan dichiara che è avvenuto un vero e proprio disastro ambientale dopo lo sbarco del carico organizzato dalla Jelly Wax di Milano. Vengono incriminati ed arrestati sei membri dell’organizzazione che in Libano avevano accolto e autorizzato lo sbarco del carico velenoso. I magistrati chiedono anche la convocazione in Libano dei dirigenti e dei soci della Jelly Wax e della Ecolife, le due società italiane responsabili dell’esportazione. Inutile dire che nessuno si presentò.
I periti nominati dal governo di Beirut analizzarono il contenuto dei fusti che riuscirono a ritrovare, scoprendo una vera e propria galleria degli orrori: cianuri, fulmicotone, metalli pesanti, sabbie contaminate da diossina, erbicidi, cloruro di metilene e tante altre sostanze pericolosissime.
Il 15 luglio era, intanto, già intervenuto l’ambasciatore italiano a Beirut, spiegando che il governo avrebbe stanziato 3 milioni di dollari a titolo di intervento umanitario per riportare in Italia i fusti tossici. Vennero nominati da Roma sei esperti e una azienda, la Mont.eco, del gruppo Montedison, per gestire l’intera operazione di recupero.
Ed ecco entrare i campo le quattro navi che diventeranno famose qualche anno dopo, con la deposizione di Francesco Fonti e dopo uno spiaggiamento controverso ad Amantea. La prima da arrivare, il 30 giugno, è la Voriais Sparadis; la Yvonne A salpa da Limassol e arriva in Libano il 23 luglio; la Cunski parte da Chioggia il 23 agosto, annunciata dalla dichiarazione di C. F., che lavorava all’epoca per la Mont.eco; la Jolly Rosso, infine, lascia La Spezia il 25 agosto, diretta a Beirut.
I mesi successivi saranno molto movimentati per le quattro navi dei veleni – così chiamate dopo l’intervento di recupero delle scorie tossiche – che si muoveranno nel mediterraneo. Solo la Voriais Sparadis e la Yvonne A rimarranno ferme a Beirut per circa sei mesi, mentre la Jolly Rosso riparte quasi subito, per poi far rotta, insieme alla Jolly Giallo e alla Jolly Celeste (tutte navi dell’armatore Messina), verso Beirut, dove arriveranno tra il 4 e il 7 gennaio 1989.
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