Valle Oliva, ora è necessario intervenire per la bonifica

17 novembre 2011 Commenti chiusi

COMUNICATO STAMPA

Amantea, 17 nov. 2011 - Pur tra mille difficoltà e tentativi istituzionali di impedire la piena conoscenza dei fatti, la verità sull’inquinamento della vallata del fiume Oliva sta emergendo. Abbiamo sempre sostenuto che è primario interesse della popolazione risolvere il grave problema che persone senza scrupoli hanno causato alle comunità che vivono nella vallata e nei comuni contermini, con gravi danni alla salute dei cittadini.

Il comitato civico Natale De Grazia intende esprimere gratitudine alla procura di Paola per i risultati conseguiti sulle due delicate inchieste legate alla depurazione delle acque ed all’inquinamento del fiume Oliva. L’emissione delle richieste di custodia cautelare sono l’epilogo di anni di lavoro, tesi all’acquisizione di dati per tutelare la salute della popolazione. Inchieste molto delicate condotte in questi anni dalla procura di Paola con estremi sacrifici in quasi assoluto isolamento istituzionale.

Noi non siamo “giustizialisti” e non godiamo difronte alla limitazione della libertà, ma i provvedimenti di custodia cautelare emessi in questi ultimi giorni, aggiungono un tassello di verità a quelle vicende che da più parti si è cercato e si cerca di occultare, soprattutto da quegli ambienti istituzionali che troppo spesso vestono i panni dei rassicuratori e che hanno cercato di convincere l’opinione pubblica che il mare inquinato e i veleni dell’Oliva erano un’invenzione degli ambientalisti e degli organi di informazione in cerca di notizie sensazionali.

L’individuazione di responsabilità sui veleni disseminati nel fiume Oliva e nel mar Tirreno, secondo il principio che “chi inquina paga”, potrebbe costringere chi indebitamente si è arricchito minando la salute dei cittadini, a restituire alla comunità parte di quegli illeciti guadagni, per risanare il territorio sostenendo i costi della bonifica di cui non possono e non devono farsi carico i cittadini.

Il fatto che il Gip abbia convalidando le misure di custodia cautelare, confermando in sostanza l’intero impianto accusatorio redatto dalla Procura di Paola, dimostra l’ottimo lavoro svolto dal pool investigativo diretto dal dott. Bruno Giordano, che probabilmente aveva visto bene anche sull’inchiesta legata alle c.d. “navi dei veleni”, chiusa troppo frettolosamente. Se il Governo e la Procura nazionale antimafia avessero fatto continuare il suo lavoro alla procura di Paola l’esito di quelle indagini avrebbe consegnato probabilmente una verità diversa.

I fatti di oggi testimoniano che le nostre preoccupazioni sullo stato dell’Oliva erano fondate, che le nostre proteste e le azioni messe in campo – ad iniziare dalla grande manifestazione del 24 ottobre 2009 tesa a sollecitare l’intervento delle istituzioni – non erano comportamenti sprovveduti ed irresponsabili.

A questo punto ci aspettiamo che le autorità competenti – ad iniziare dagli enti locali – svestano i panni di “rassicuratori” e assumano le responsabilità che loro competono compiendo tutti gli atti amministrativi necessari ad avviare la fase di bonifica delle aree inquinate e diano inizio ad una seria ed accurata indagine sulle malattie epidemiologiche contratte nell’area circostante la vallata dell’Oliva e sull’intero territorio del Tirreno cosentino, con l’istituzione del registro tumori tante volte promesso ma mai realmente istituito.

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Rifiuti tossici nel fiume Oliva, «è disastro ambientale»

16 novembre 2011 Commenti chiusi

Il procuratore capo di Paola, Bruno Giordano, ha riferito in conferenza stampa i particolari dell’arresto dell’imprenditore Cesare Coccimiglio: secondo l’accusa avrebbe messo in piedi un imponente sistema di smaltimento di rifiuti industriali causando così l’inquinamento delle falde acquifere del fiume Oliva e dei terreni circostanti

di Roberto De Santo (fonte Il Corriere della Calabria)

Il sostituto commissario Tonino Pastore e il procuratore capo Bruno Giordano

PAOLA «Lo scenario che si è offerto ai nostri occhi è stato di un vero e proprio disastro ambientale. Un quadro complessivo che ora è davvero, davvero preoccupante». Non usa mezzi termini il procuratore capo di Paola, Bruno Giordano, titolare dell’inchiesta sul presunto inquinamento della vallata dell’Oliva, per descrivere l’attuale condizione in cui versa l’intera area. Parole durissime espresse nel corso della conferenza stampa convocata oggi pomeriggio nella sala Losardo della Procura di Paola per raccontare i dettagli dell’operazione che ha portato stamani all’arresto del 75enne Cesare Coccimiglio, noto imprenditore amanteano del settore della produzione di materiale per l’edilizia. Per lui il gip del Tribunale di Paola, Giuseppe Battarino, ha disposto la misura degli arresti domiciliari su richiesta, appunto, del procuratore capo ed eseguita dalla polizia di stato sede distaccata presso la Procura di Paola. Secondo l’accusa l’imprenditore, in concorso con altri quattro soggetti – tutti residenti nella zona –, avrebbe messo in piedi un imponente sistema di smaltimento di rifiuti industriali causando così l’inquinamento delle falde acquifere del fiume Oliva e dei terreni circostanti. In particolare gli inquirenti contestano a Coccimiglio tre i capi di imputazione: disastro ambientale, avvelenamento delle acque destinate al consumo umano e realizzazione di discariche abusive di rifiuti pericolosi. «Siamo arrivati ad individuare le responsabilità gravi dell’imprenditore – ha spiegato Giordano – in seguito a diversi elementi di indagine che ci hanno permesso di inquadrare nella sua complessità l’attività illecita messa in atto dalla sua azienda». Tra gli esempi citati dal procuratore capo «la circostanza che il materiale rinvenuto fosse addirittura limitrofo ai terreni dell’impresa» ma «anche testimonianza dirette dell’accaduto». La richiesta della misura cautelare era stata avanzata già alcuni mesi addietro dal procuratore capo, ma data la mole di incartamenti a carico dell’imprenditore solo oggi il gip ha dato il via libera all’esecuzione dell’arresto. L’indagine avrebbe già consentito di individuare, come già anticipato dalCorriere della Calabria, una serie di siti contaminati da sostanze altamente pericolose e la presenza in quest’area anche di contaminazione radioattiva da Cesio 137. Enorme la quantità di materiale rinvenuto e confermato dalle analisi condotte lo scorso anno dai tecnici dell’Arpa Calabria e dall’Isituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) che avrebbero accertato almeno 86mila metri cubi di contaminanti composti per lo più da fanghi industriali la cui provenienza non sarebbe, secondo l’accusa, riconducibile alla Calabria. Materiale che sarebbe stato interrato contaminando sia i territori sia le falde acquifere della zona. Da qui la richiesta di provvedimento cautelare per l’imprenditore accolta oggi dal gip. «Resta aperto – ha detto ancora preoccupato Giordano – il problema dello smaltimento dei rifiuti rinvenuti che data l’alta pericolosità, rilevata dai tecnici che hanno esaminato i materiali, dovranno essere rimossi dalla zona e inviati in appositi siti di stoccaggio che non sarebbero presenti in Italia».

Il video di Telecosenza

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Fiume Oliva, arrestato un imprenditore per disastro ambientale

16 novembre 2011 Commenti chiusi

L’imprenditore accusato di disastro ambientale, avvelenamento delle acque e smaltimento illecito di rifiuti. Oggi alle 16.00 Conferenza stampa in Procura per i dettagli dell’operazione

AMANTEA (COSENZA), 16 Nov. 2011 – La Procura della Repubblica di Paola ha disposto l’arresto dell’imprenditore di Amantea Cesare Coccimiglio, di 75 anni, titolare di un’impresa di produzione di materiali per l’edilizia. L’arresto e’ stato disposto nell’ambito dell’inchiesta sui rifiuti tossici interrati nell’alveo del fiume Oliva.
La magistratura di Paola guidata dal procuratore Bruno Giordano avrebbe accertato l’interramento di 90 mila metri cubi di materiale di risulta. L’inchiesta era nata dal ritrovamento nell’alveo del corso d’acqua ubicato al confine tra i comuni di Amantea, Serra d’Aiello e Aiello Calabro nel basso Tirreno cosentino di rifiuti tossici e radioattivi.
Le indagini sono state coordinate dalla Procura di Paola ed eseguite da Capitaneria di porto, Corpo forestale dello Stato e Polizia provinciale di Cosenza. (ANSA)

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La Calabria non ha bisogno di “rassicuratori” ma di azioni che risolvono

10 novembre 2011 Commenti chiusi

Calabria inquinata e “rassicuratori” istituzionali.

Dalla nave di Cetraro ai veleni seppelliti a Crotone e nel fiume Oliva tanti hanno cercato di “rassicurare”. Pochi invece gli atti istituzionali compiuti per risolvere i problemi e dare risposte ai cittadini calabresi.

Alfonso Lorelli

Sui veleni disseminati in Calabria e nei mari che la circondano è in atto una “campagna” istituzionale volta a rassicurare la popolazione, mediante tutti i mezzi di informazione, che si è trattato solo di falsi allarmismi del movimento ambientalista, che non esistono pericoli per la salute della gente e che, conseguentemente, non bisogna bonificare i siti che sarebbero solo “leggermente” inquinati, anche perché ( ed è qui il bandolo della matassa) non vi sono i soldi per farlo.

Questa “campagna d’autunno” è stata rilanciata anche perché il vasto e variegato movimento popolare che si era espresso con la grande manifestazione dei “35.000 di Amantea” di due anni fa, sembra essersi oggi indebolito e disperso. E come la storia insegna quando le lotte ristagnano arriva il riflusso e con esso la vendetta.

Rassicurare è la loro parola d’ordine; l’elenco dei “rassicuratori istituzionali” è lungo; identico il loro cliché. Negano senza dimostrare; e poiché l’onere della prova spetta a chi afferma e non a chi nega, il movimento ambientalista, che non può fare carotaggi o prospezioni nei fondali marini dati gli enormi costi finanziari e le norme vigenti, viene neutralizzato dai comunicati “rassicuranti” delle istituzioni. Ha iniziato due anni fa la ministra Prestigiacomo sulla vicenda del relitto di Cetraro presentato come quello della motonave Catania e non della famigerata Cunschy; e poiché nessuno poteva dimostrare il contrario, quantunque gli elementi logico-induttivi fossero numerosi ed andassero in direzione opposta, quella versione  ufficiale è stata spacciata per verità, fatta propria dal procuratore antimafia Grasso, dal suo sostituto Cisterna e recentemente dal proc. Pignatone in attesa di promozione e trasferimento. Molti sindaci ed una parte della popolazione si adagiarono su quella versione ufficiale, mentre forse il capitano Natale De Grazia si rivoltava nella tomba; lui  che indagava seriamente sulle  navi dei veleni, che aveva chiesto alla Saipem di mettere a disposizione la sola nave capace di fare prospezioni in profondità abissali, lui che morì in circostanze misteriose mentre cercava la verità oggi negata.

Recentemente altri rassicuratori si sono uniti al coro. La Direzione marittima delle capitanerie di porto della Calabria, in una corposa relazione sullo stato dei nostri mari, afferma di aver censito 288 relitti e di aver “verificato” che “non vi è traccia di presenza di navi affondate con sostanze pericolose”. Come abbiano fatto queste Capitanerie di porto a giungere a tali risultati non sappiamo; infatti ancora due anni fa ci dicevano di non avere i mezzi necessari per scandagliare, fotografare, prelevare campioni da profondità abissali dove si trovano molti relitti; tanto che per la prospezione del relitto di Cetraro si usò la nave “Mare Oceano” dell’imprenditore Attanasio che, ci dissero, era la sola a poter arrivare alla profondità di 480 metri, fotografare ma non portare in superficie campioni del carico contenuto nelle stive. Anche su questa “rassicurazione istituzionale” perciò resta il dubbio, anzi l’incredulità.

Le dichiarazioni della Direzione marittima della Calabria e quelle del giudice Pignatone sono state prese al volo dal presidente della Regione Scopelliti che riferendosi alle “ricerche” ed ai “riscontri di diverse istituzioni” ha voluto, anche lui, dare addosso agli ambientalisti che vorrebbero terrorizzare la popolazione calabrese producendo danni al turismo ed a tutti i cittadini.

A questi “rassicuratori” di casa nostra sembra volersi aggiungere anche la Commissione ambiente della Unione Europea i cui rappresentanti, su sollecitazione dell’on. Mario Pirillo, si recheranno in Calabria il 23 e 24 novembre prossimi. Infatti apprendiamo dai giornali che i componenti di detta Commissione si appresterebbero anche loro a “rassicurare “ la popolazione sulla inesistenza di pericoli per la popolazione che abita nella vallata del fiume Oliva e nei Comuni contermini. Se questo dovesse essere l’intento dei Commissari europei ci troveremmo, ancora una volta, di fronte all’ennesima presa di posizione aprioristica, assunta a tavolino, senza aver acquisito, verificato e valutato le risultanze degli accertamenti in loco e dei carotaggi effettuati per conto della Procura della Repubblica di Paola.

Fiume Oliva - Località Foresta

A tutti i “rassicuratori” chiediamo di consultare gli atti cioè le analisi effettuate sul terreno e nelle acque, perché le risultanze parlano chiaro. In località Petrone di Aiello C. l’Ispra ha rilevato la presenza di cesio 137, radionuclide artificiale altamente cancerogeno, in quantità pari a 132 Becquerel per chilogrammo di terreno, mentre la presenza in terreni non inquinati non supera il valore di 16 Bq/kg. E che l’Ispra, per rassicurare, abbia detto che si tratta di ricadute dopo Cernobyl, non convince nessuno perché è assurdo credere che la nube radioattiva proveniente dall’Urss abbia scelto proprio l’Oliva per depositarsi.  In località Foresta la presenza di berillio e cadmio superano di ben 15 volte il valore di cui al DM 471/99, lo stagno è presente in valori superiori a 12 volte e la presenza di altri metalli pesanti rinvenuti nel corso dei carotaggi  effettuati è assolutamente incompatibile con fattori naturali. Su questi e su altri dati che sono in possesso del Procuratore Giordano  bisogna ragionare, non sulla propaganda “rassicurante” delle istituzioni.

Nella vallata dell’Oliva vi sono migliaiia di tonnellate di rifiuti tossici colà sepolti da anni, la loro pericolosità per la salute della gente è indiscutibile perché è stata accertata(vedasi relazione Brancati), perciò ogni “rassicuratore” istituzionale non è credibile.

Alla Commissione europea, alla Regione Calabria, al Ministero dell’ambiente spetta un solo compito: mettersi all’opera, insieme ed ognuno per le competenze proprie, per programmare, finanziare ed effettuare le necessarie bonifiche, ponendo la parola fine ad una vicenda che va risolta al più presto e senza mettere la testa sotto la sabbia. La popolazione non ha bisogno di chiacchiere che rassicurano ma di fatti che risolvono.

Prof. Alfonso Lorelli

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A Crotone per dire “MO BASTA!” all’emergenza rifiuti in Calabria

10 novembre 2011 Commenti chiusi

MANIFESTAZIONE

CROTONE 12 Novembre

per chiedere la FINE del COMMISSARIAMENTO

per l’emergenza rifiuti in Calabria

La necessità di lottare per la difesa del territorio come Bene Comune, nell’ultimo anno, ha dato vita a una serie di battaglie da parte di movimenti, associazioni, sindacati che hanno sviluppato o esteso, in forme differenti, lotte già esistenti.
Uno dei principali banchi di prova che si trovano dinnanzi la maggior parte delle regioni italiane, delle province e dei comuni è la gestione del ciclo dei rifiuti: la fuoriuscita dall’emergenza continua e la sottrazione del suo controllo alle ecomafie.
Come nella maggior parte del meridione, anche in Calabria, uno degli attacchi più duri al territorio è dato dal commissariamento della gestione del ciclo dei rifiuti, iniziato circa 14 anni fa, nel lontano 1997.
L’emergenza rifiuti è stata utilizzata quale ammonimento verso popolazioni, comitati, associazioni e movimenti che si sono battuti e si battono contro il proliferare di inceneritori e discariche. Il messaggio, di chiaro stampo autoritario, è: se non volete finire coi rifiuti per strada come in Campania, bisogna costruire nuove discariche ed inceneritori. Soluzione, questa, che favorisce solo l’imprenditoria e la ‘ndrangheta e che risulta mortale per i nostri territori e le popolazioni calabresi.
Questo ricatto è inaccettabile e va contrastato con ogni mezzo.
In Calabria, cosi come nelle altre regioni italiane, non è la mancanza di costosissimi e nocivi inceneritori e discariche ad impedire la soluzione al problema rifiuti, ma la colpevole assenza di qualsiasi politica di riduzione, riutilizzo e riciclaggio e raccolta differenziata, oltre all’assenza di serie e trasparenti procedure per l’affidamento della gestione dell’intero ciclo di smaltimento dei rifiuti.
Inoltre, la logica che ha mosso le azioni dei vari Commissari per le emergenze ambientali in tutti questi lunghi anni è stata quella di favorire i privati nella gestione degli impianti per lo smaltimento dei rifiuti. Privati che “più smaltiscono e più guadagnano”, più abbancano rifiuti più si arricchiscono. Anche se i veri burattinai che hanno determinato e determinano lo sfruttamento e la distruzione dei nostri territori sono da ricercare in quel groviglio di interessi in cui si agitano la nostrana imprenditoria d’accatto, le mafie, il mondo delle professioni e della sanità, la classe politica e dirigente.
Quanto accade in Calabria e nel Mezzogiorno è emblematico della situazione del Paese: gestione non controllata di rifiuti industriali, pericolosi e solidi urbani, mancata bonifica di territori pesantemente inquinati.
In questo quadro un dato impressionante è quello della situazione sanitaria in Calabria, infatti, l’incidenza generale di malattie tumorali ha drammaticamente superato, per particolari patologie di cancro, la media nazionale. La gestione commissariale, che dura da oltre quattordici anni, ha completamente ignorato questa allarmante situazione.
Bisogna affrontare la questione ambientale e sanitaria procurata dalla nociva gestione del ciclo dei rifiuti per avviare uno sviluppo eco-compatibile che crei nuove possibilità occupazionali e che, nel tutelare i beni comuni, faccia gli interessi concreti delle nostre comunità.
E’ indispensabile, quindi, per rendere sostenibile lo sviluppo della nostra regione, restituire il potere di programmazione e di gestione del ciclo dei rifiuti alle comunità e agli enti locali, attraverso un percorso di reale partecipazione democratica. E’ indispensabile che l’intero ciclo dei rifiuti sia direttamente ed interamente programmato e gestito dal pubblico.
Non possiamo e non vogliamo più permettere che le nostre regioni vengano considerate terra di conquista dove è consentito realizzare qualsiasi attività lucrativa senza regole e senza rispetto per l’ambiente e contro la volontà delle popolazioni.
Per tutto questo INVITIAMO tutte le associazioni, le organizzazioni, le reti, i gruppi e le persone interessate ad aderire e a partecipare ad una grande manifestazione, che si terrà a Crotone il 12 Novembre 2011, per chiedere la fine del commissariamento per l’emergenza rifiuti in Calabria e in tutte le altre regioni commissariate.

Per info e adesioni:

www.difendiamolacalabria.org/12novembre/
12novembre@difendiamolacalabria.org

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Tirreno inquinato. Due arresti per disastro ambientale

5 novembre 2011 Commenti chiusi

I fanghi dei depuratori comunali venivano scaricati direttamente in mare. La procura di Paola ha disposto l’arresto di due dirigenti della Smeco. Secondo il Gip possibili connivenze politiche e amministrative

Il Tirreno quando è inquinato

Paola, 02 nov. 2011 – «Disastro ambientale e frode in fornitura» con quest’accusa sono finiti in carcere l’Amministratore della Smeco, Domenico Albanese e Jessica Plastino dirigente della stessa società che gestisce il maggior numero di depuratori dei comuni che si affacciano sul Tirreno cosentino. Il provvedimento di custodia cautelare è stato emesso dalla Procura di Paola, diretta dal dottor Bruno Giordano, nell’ambito delle indagini preliminari sulla gestione dei depuratori. Nel corso delle indagini, che vanno avanti ormai da tre anni, è stato accertato che i fanghi della depurazione di alcuni comuni finivano direttamente in mare o nei fiumi che sfociano nel Tirreno. E’ il caso del comune di Fuscaldo dove i fanghi, altamente pericolosi per la salute, venivano seppelliti in un torrente che alla prima pioggia li riversava in mare. Dai documenti in mano alla magistratura «emerge inconfutabilmente che per alcuni depuratori non sono stati smaltiti fanghi per anni». L’ipotesi è che, per risparmiare, si sia deciso di gettarli direttamente in mare senza depurarli.

Si attende lo sviluppo delle indagini che «andranno avanti» come ha dichiarato lo stesso procuratore capo di Paola Bruno Giordano – e coinvolgeranno anche le abitazioni private dotate di “pozzi neri” e la depurazione delle attività produttive della zona. Potrà – forse – esser chiarita l’origine di quella famosa chiazza marrone che compare spesso sulle acque del Tirreno cosentino, che fa indignare i bagnanti minando seriamente il turismo della zona ormai al collasso.

Bruno Giordano in conferenza Stampa

Il Gip di Paola, Giuseppe Battarino, nell’accogliere la richiesta di custodia cautelare formulata dalla Procura, ha richiesto di approfondire le indagini per verificare possibili connivenze tra i gestori degli impianti e gli amministratori locali o funzionari e tecnici comunali. «Ci si deve ragionevolmente rappresentare la concreta possibilità che solo attraverso connivenze estese di soggetti collocati nei livelli locali e regionali di governo – ha scritto il Gip - in ambito politico o più probabilmente tecnico amministrativo, gli indagati abbiano potuto impunemente devastare la costa tirrenica, essendo supportati, o “non disturbati” nella scelta di porre a rischio un intero ecosistema e la salute di decine di migliaia di cittadini».

«La frode nelle pubbliche forniture – aggiunge il gip motivando la necessità della custodia cautelare dei due indagati – non è strutturalmente esclusa dal fatto che qualche “intraneus” alle amministrazioni sia colluso con gli attuali indagati. Si tratta – ipotizza il giudice per le indagini preliminari – di relazioni illecite, o comunque di omissioni di intervento la cui natura dovrà essere necessariamente oggetto di indagine, venendo a riguardare soggetti che i due indagati senza dubbio alcuno contatterebbero per pianificare una strategia comune di elusione delle indagini, con concreto e decisivo rischio per le stesse…»

Sarebbe interessante anche verificare come mai le analisi condotte dall’Arpacal sulle acque del Tirreno cosentino hanno dato spesso risultati “eccellenti” se è vero che molti depuratori comunali non funzionavano correttamente sversando in mare sostanze altamente inquinanti.

Video Conferenza stampa

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Veleni, le conferme e le mezze verità

5 novembre 2011 Commenti chiusi

I tecnici dell’Ispra convalidano i dati dell’Arpacal sul livello di contaminazione chimica. Ma restano i dubbi sulla radioattività riscontrata nell’area.

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di Roberto De Santo

(fonte: Corriere della Calabria)

Località Foresta

Fiume Oliva - Ottantasettemila metri cubi di veleni. Questo è l’ultimo dato che rappresenta l’ennesimo tassello del puzzle chiamato Valle dell’Oliva. Sono stati i tecnici dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) a fornire questo dato, nel corso di un vertice operativo con l’Arpa Calabria, al procuratore capo di Paola, Bruno Giordano, titolare dell’indagine sull’inquinamento di quest’area del Tirreno cosentino. Un quantitativo di sostanze tossico-nocive che, secondo i calcoli degli uomini della Procura di Paola, per essere trasportate hanno comportato circa ottomila viaggi di camion di grandi dimensioni. Migliaia di viaggi che questi grossi autocarri avrebbero effettuato nell’area accompagnati, poi, dall’utilizzo di altri mezzi meccanici necessari a nascondere i veleni nel sottosuolo dell’area. Un lavoro lungo e delicato, avvenuto nel silenzio assordante degli abitanti dei luoghi, che sarebbe durato diversi anni. Stando alle stime degli investigatori, almeno vent’anni. Cioè da quando, agli inizi degli anni 90, queste zone sono state interessate dalle prime, sostanziali, modifiche dei luoghi. Uno studio aereo-fotografico comparato della vallata, nelle mani del procuratore capo, comproverebbe proprio questo assunto. Anni nei quali, secondo l’ipotesi investigativa della Procura di Paola, nei terreni, nell’alveo e nelle acque del torrente che bagna i Comuni di Amantea, San Pietro in Amantea, Aiello Calabro e Serra d’Aiello sarebbero stati interrati, anche con la complicità degli uomini della malavita organizzata, non solo sostanze tossico-nocive ma anche radioattive. Non bisogna dimenticare che alcuni dei rinvenimenti avvenuti nell’area sarebbero dovuti proprio alle indicazioni fornite da alcuni uomini affiliati al clan Muto di Cetraro. Rivelazioni, contenute in una informativa specifica consegnata nelle mani del procuratore Giordano, che hanno permesso agli inquirenti di circoscrivere le ricerche su quattro o cinque siti risultati poi contaminati. Un piano criminale, secondo la Procura, teso a riempire di veleni una delle più suggestive aree naturali del Tirreno cosentino. E le analisi effettuate nella vallata dell’Oliva da parte di periti della Procura ma anche dai tecnici dell’Arpacal, già anticipate nei precedenti numeri dal

Ottomila viaggi di camion di grandi dimensioni carichi di rifiuti tossici

Corriere della Calabria, comproverebbero questa tesi. E, intanto, un’altra verità attende la conferma solo processuale: alcune di queste aree contaminate dai veleni erano private. Sotto questi terreni, utilizzati quotidianamente fino allo scorso anno per la coltivazione di prodotti agricoli locali ma anche per il foraggio degli animali, sono stati rivenuti fanghi industriali altamente nocivi. Secondo le indagini, alcune decine di migliaia di metri cubi. Una verità terribile che dimostrerebbe come la contaminazione tossica sia entrata per anni direttamente nella catena alimentare degli abitanti della zona. Per questo motivo la Procura ha già stralciato la posizione di quattro soggetti, risultati appunto proprietari o concessionari di tre fondi coltivati, che sono stati già rinviati a giudizio. Per loro l’accusa è quella di aver trasformato i propri terreni in vere e proprie discariche illecite di materiale altamente pericoloso. Il vertice con l’Ispra Intanto dai dati dell’Ispra, che saranno ufficialmente consegnati alla Procura entro fine settembre, emergono nuove conferme, seppure parziali, sull’ipotesi di inquinamento della vallata. In particolare i tecnici dell’Istituto hanno convalidato praticamente tutte le analisi chimiche che l’Arpacal ha effettuato sui campioni prelevati nel corso degli ultimi anni attraverso carotaggi, scavi, rilievi di superficie, verifiche stratigrafiche e indagini geofisiche sull’intera area. Soprattutto in località Foresta di Serra d’Aiello e nelle località Carbonara e Giani di Aiello Calabro. Da quelle analisi era emerso un livello elevatissimo di contaminazione dell’area da parte di fanghi industriali la cui provenienza, secondo la Procura, per caratteristiche e quantitativi riscontrati, non può essere locale. I dati, ora confermati dall’Ispra, indicano, infatti, la presenza nei terreni e nel sottosuolo della zona di resti della lavorazione di idrocarburi difficilmente riscontrabile in zona e con valori altissimi: dieci volte superiore al fondo naturale. Ma anche metalli pesanti come l’arsenico e il rame sempre con una concentrazione fino a dieci volte superiore alla norma. Da quelle analisi emerse anche un quantitativo eccessivo di cadmio (6,5 volte superiore alla norma), zinco (cinque volte superiore alla norma), antimonio, cromo esavalente e cobalto. Per queste sostanze l’indicazione fornita dall’Ispra è precisa: «Per le loro caratteristiche dovranno essere rimosse dalla zona per, poi, essere smaltite in discariche specifiche». L’altra conferma viene sempre dagli stessi tecnici dell’Istituto che hanno rilevato come alcune concentrazioni di queste sostanze si siano potute ridurre a causa della permanenza protratta negli anni in terreni altamente permeabili, ma i cui effetti, hanno spiegato, si sarebbero già manifestati attraverso il passaggio nelle falde acquifere superficiali e profonde. Nessuna spiegazione ulteriore, invece, sul livello di contaminazione radioattiva riscontrata nell’area. Per l’Ispra i picchi di cesio 137, riscontrati con valori addirittura 16 volte superiori a quelli del fondo naturale della zona, sarebbero da ritenersi come effetto della contaminazione da ricaduta di Chernobyl. Una spiegazione che non chiarisce fino in fondo come sia stato possibile accumulare in aree ben circoscritte (Valle Petrone e Cava di Aiello Calabro e nelle località di Foresta di Serra d’Aiello) percentuali così alte di questa sostanza radioattiva. Un giallo che si svolge, tra l’altro, in una zona teatro del presunto traffico delle cosiddette “navi dei veleni”.


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Black river

5 novembre 2011 Commenti chiusi

Il Ctu della Procura di Paola denuncia: «Correlazione tra tumori e sostanze rinvenute nell’Oliva». L’Ispra nega qualsiasi trasmissione di atti al procuratore.

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di Roberto De Santo (fonte: Corriere della Calabria)

Fiume Oliva – «Catturavo trote ed anguille. Le trote che catturavo si presentavano con la testa molto più grande rispetto al resto del corpo, non solo gli esemplari adulti ma anche gli esemplari più giovani». Il racconto non è tratto da un film dell’orrore o da un romanzo noir ma è la storia di uno dei tanti abitanti dell’hinterland amanteano che per anni hanno frequentato la Valle dell’Oliva finita nell’indagine che la Procura di Paola sta portando avanti su presunti casi d’interramento di veleni. Un uomo che, soprattutto nel corso degli anni 90, assieme a un suo amico, aveva l’abitudine di andare nel torrente Oliva per pescare.
Un passatempo. Un modo per stare insieme e trascorrere  ore spensierate trasformatosi, per entrambi, in una condanna: carcinoma della parete bronchiale per uno e angioma epatico per l’altro.
Due sentenze definitive, con diagnosi apparentemente diversa, ma che in comune hanno quello che i medici definiscono «iniziatore delle patologie tumorali»: le sostanze ritrovate in località Foresta di Serra d’Aiello. Manganese, ferro, triclorometano, arsenico, manganese, riscontrati nelle acque con valori a volte trenta volte superiori  alle condizioni naturali dei luoghi. A cui si aggiungono altri metalli pesanti ritrovati nei terreni e nel sottosuolo dell’Oliva. Ma soprattutto il cesio 137.
Lì, nei luoghi dove erano soliti ritrovarsi i due amici per pescare, i tecnici dell’Arpacal, nel 2004, avevano rinvenuto, a una profondità di cinque metri, proprio questo isotopo artificiale con un valore pari a 3,59 B/kg (Bequerel per chilogrammo di terreno). Un valore altissimo mai riscontrato prima in altre zone, a questa profondità, che secondo l’ultima relazione del dottor Giacomino Brancati, il tecnico nominato dal procuratore capo Bruno Giordano, sarebbe sufficiente a giustificare i carcinomi nella zona. E i dati trasmessi alla Procura di Paola, lo scorso febbraio dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), sembrerebbero dare corpo alla tesi. In particolare, il consulente chiamato a valutare proprio il caso dei due pescatori amatoriali alla luce degli ultimi dati forniti dall’Ispra parla «dell’esistenza di una correlazione» tra sostanze rinvenute nell’Oliva e patologie tumorali.

tumore tiroide

Nel rapporto Brancati si trova dell’altro. La drammatica storia degli amici accomunati dalla passione della pesca non è l’unica sotto l’osservazione del tecnico. Ma assomiglia maledettamente a quella di altre due persone che, da anni, vivono nella vallata dell’Oliva. In questo caso la loro diagnosi porta il nome di carcinoma della tiroide. La causa, però, sembrerebbe la stessa. Anche per loro il consulente tecnico della Procura di Paola parla di correlazione stretta tra il materiale ritrovato in località Foresta e il tumore contratto. Una valutazione precisa che è ancora più dettagliata rispetto a quella  già espressa dallo stesso Ctu nel suo precedente rapporto del 2009.
In quell’occasione il tecnico aveva passato in rassegna tutti i casi di tumore registrati in quest’area mettendoli a confronto con il dato nazionale e regionale. Già allora Brancati aveva stabilito «l’esistenza di un eccesso statisticamente significativo di mortalità nell’area del distretto di Amantea rispetto al restante territorio regionale».  Nel suo studio, consegnato alla Procura di Paola «Catturavo trote ed anguille. Le trote che catturavo si presentavano con la testa molto più grande rispetto al resto del corpo, non solo gli esemplari adulti ma anche gli esemplari più giovani». Il racconto non è tratto da un film dell’orrore o da un romanzo noir ma è la storia di uno dei tanti abitanti dell’hinterland amanteano che per anni hanno frequentato la Valle dell’Oliva finita nell’indagine che la Procura di Paola sta portando avanti su presunti casi d’interramento di veleni. Un uomo che, soprattutto nel corso degli anni 90, assieme a un suo amico, aveva l’abitudine di andare nel torrente Oliva per pescare.
Un passatempo. Un modo per stare insieme e trascorrere  ore spensierate trasformatosi, per entrambi, in una condanna: carcinoma della parete bronchiale per uno e angioma epatico per l’altro.
Due sentenze definitive, con diagnosi apparentemente diversa, ma che in comune hanno quello che i medici definiscono «iniziatore delle patologie tumorali»: le sostanze ritrovate in località Foresta di Serra d’Aiello. Manganese, ferro, triclorometano, arsenico, manganese, riscontrati nelle acque con valori a volte trenta volte superiori  alle condizioni naturali dei luoghi. A cui si aggiungono altri metalli pesanti ritrovati nei terreni e nel sottosuolo dell’Oliva. Ma soprattutto il cesio 137.
Lì, nei luoghi dove erano soliti ritrovarsi i due amici per pescare, i tecnici dell’Arpacal, nel 2004, avevano rinvenuto, a una profondità di cinque metri, proprio questo isotopo artificiale con un valore pari a 3,59 B/kg (Bequerel per chilogrammo di terreno). Un valore altissimo mai riscontrato prima in altre zone, a questa profondità, che secondo l’ultima relazione del dottor Giacomino Brancati, il tecnico nominato dal procuratore capo Bruno Giordano, sarebbe sufficiente a giustificare i carcinomi nella zona. E i dati trasmessi alla Procura di Paola, lo scorso febbraio dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), sembrerebbero dare corpo alla tesi. In particolare, il consulente chiamato a valutare proprio il caso dei due pescatori amatoriali alla luce degli ultimi dati forniti dall’Ispra parla «dell’esistenza di una correlazione» tra sostanze rinvenute nell’Oliva e patologie tumorali.
Nel rapporto Brancati si trova dell’altro. La drammatica storia degli amici accomunati dalla passione della pesca non è l’unica sotto l’osservazione del tecnico. Ma assomiglia maledettamente a quella di altre due persone che, da anni, vivono nella vallata dell’Oliva. In questo caso la loro diagnosi porta il nome di carcinoma della tiroide. La causa, però, sembrerebbe la stessa. Anche per loro il consulente tecnico della Procura di Paola parla di correlazione stretta tra il materiale ritrovato in località Foresta e il tumore contratto. Una valutazione precisa che è ancora più dettagliata rispetto a quella  già espressa dallo stesso Ctu nel suo precedente rapporto del 2009.
In quell’occasione il tecnico aveva passato in rassegna tutti i casi di tumore registrati in quest’area mettendoli a confronto con il dato nazionale e regionale. Già allora Brancati aveva stabilito «l’esistenza di un eccesso statisticamente significativo di mortalità nell’area del distretto di Amantea rispetto al restante territorio regionale».  Nel suo studio, consegnato alla Procura di Paola nel maggio del 2009, il tecnico aveva individuato 1.808 casi nei Comuni ricadenti nel distretto sanitario di Amantea di cui ben 191 proprio nell’area di località Foresta.
Un’incidenza così elevata da far lanciare un vero e proprio allarme per i cittadini della zona. «Si conferma – scriveva Brancati – l’esistenza di un pericolo attuale per la popolazione residente nei territori dei comuni di Amantea, San Pietro in Amantea e Serra d’Aiello, circostante al letto del fiume Oliva a sud della località Foresta, dovuto alla presenza di contaminanti ambientali capaci di indurre patologie tumorali e non».
E ancora. «Occorre rilevare – denunciava il consulente – la suggestiva evidenza di un eccesso di tumori maligni della tiroide nei territori più prossimi ai siti di contaminazione, che, ancorché al di sotto del limite di significatività statistica, concorda con la presenza anomala di cesio 137». Un allarme che, alla luce del nuovo rapporto scaturito dagli ultimi dati esaminati dal tecnico, sembra più che mai attuale.

La posizione dell’Ispra
L’Ispra non sembra voler ancora confermare né tantomeno commentare ufficialmente i dati sui carotaggi avvenuti lo scorso anno nella valle dell’Oliva. Nonostante le prime indiscrezioni che proprio il Corriere della Calabria ha anticipato e che indicano, tra l’altro, un livello di contaminazione da cesio 137, rinvenuto in località Petrone di Aiello Calabro, circa dieci volte superiore la media regionale.
«Non so nulla di questi dati – afferma laconico Leonardo Arru, dirigente dell’Ispra e direttore dei lavori di carotaggio della vallata dell’Oliva -. Stiamo concludendo le nostre valutazioni e appena avremo chiuso l’intero studio di caratterizzazione dei siti lo consegneremo alla Procura di Paola. Sarà il procuratore a decidere se rendere pubblici i dati che, ripeto, non abbiamo ancora trasmesso».
Il dirigente Ispra non vuole valutare neppure i dati già acquisiti da precedenti studi e che indicherebbero l’altissimo livello di contaminazione presente nell’Oliva. Nessun cenno neppure sugli effetti che queste sostanze potrebbero indurre su quanti vivono nella vallata. «Non posso commentare nessun dato visto che l’indagine è ancora in corso».

La collinetta degli orrori
E l’altro dato drammatico che emergerebbe da questa storia fatta di veleni nascosti e tumori ricade sull’incidenza elevata di patologie oncologiche registrate in un’area ancor più delimitata.
Ad essere particolarmente colpito, infatti, sembrerebbe il centro abitato di Contrada Gallo. Un borgo rurale del Comune di San Pietro in Amantea che si trova su una collinetta, proprio al di sopra dei siti dove sono stati ritrovati i materiali inquinanti, con quei valori così alti, tra cui lo stesso cesio 137. In una missiva-denuncia presentata nel 2009 al sindaco di San Pietro in Amantea da un’assistente sociale che vive nella zona emergerebbero, infatti, dati clamorosi. Oltre il 10% dei cittadini residenti in questa località avrebbero contratto patologie oncologiche.

Località Foresta

La donna aveva segnalato, infatti, che su 177 abitanti in questa località diciotto si sarebbero ammalati di tumori e cinque di questi sarebbero anche deceduti. «Il decorrere delle patologie menzionate – scriveva la dottoressa – si è verificata all’inizio degli anni ’90 e il primo decesso si è verificato nel 1996».
Nell’ultimo caso denunciato dall’assistente sociale residente nella zona si trattava di una ragazza di 27 anni. Ma le morti come i nuovi casi di residenti che hanno contratto malattie oncologiche in questa area sono continuati anche negli anni successivi. Per lo più tumori al colon, alla tiroide, alla laringe come anche ai polmoni ed alle vesciche. Patologie che, leggendo attentamente il rapporto Brancati, sarebbero pienamente compatibili con le sostanze rinvenute nella vallata dell’Oliva.
Anche se, adesso, sono in pochi in zona a volerne parlare. Soprattutto ora. Quando l’estate è alle porte. «Noi viviamo grazie a un’attività commerciale – spiega chi abita nell’Oliva –. Abbiamo già pagato abbastanza per questa storia. Non è giusto continuare a subire».

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24 ottobre. Una data da ricordare

24 ottobre 2011 Commenti chiusi

24 ottobre 2009 – 24 ottobre 2011

di Asmara Bassetti

Un momento della manifestazione del 24 ott. 2009

Amantea, 24 ott. 2011 - Il 24 ottobre è una data importante per Amantea e per la Calabria intera, che nel 2009 si è resa protagonista di una grande manifestazione alla quale hanno partecipato più di 30 mila persone per dire “basta ai veleni” a chi distrugge incontrastato il nostro territorio, a chi uccide noi calabresi nell’orgoglio e nell’amore. Un amore incondizionato nei confronti della nostra terra, un amore che spinge i “buoni” a non piegare mai la testa quando qualcuno cerca di affondare navi piene di sostanze pericolose, che magari si piaggiano e il cui carico viene fatto finire chi sa dove; che non abbassa la testa nemmeno quando i ministri dell’ambiente e i vari governatori di turno ci rassicurano che «va tutto bene» che non c’è nessuna nave carica di sostanze pericolose nei nostri mari e che la radioattività riscontrata nel fiume Oliva è di origine naturale quando invece i dati dimostrano che “probabilmente” non è così.

Organizzata dal comitato civico “Natale De Grazia”, la manifestazione del 24 ottobre 2009 – giorno in cui è avvenuta l’intitolazione ufficiale del lungomare di Amantea allo stesso capitano di corvetta –  lo dimostra: quel giorno tutto il popolo calabrese ha finalmente alzato la testa, si è “svegliato” dallo stato di incoscienza in cui si trovava e ha reagito. Quel giorno tutta la Calabria, come mai, si è unita, si è stretta, si è sentita più forte.

Più forte per chiedere finalmente la verità, per chiedere che il fiume Oliva– i cui terreni risultano avere una contaminazione da cesio 137 circa 10 volte superiore alla media regionale e la cui area si sospetta da anni che sia stata utilizzata come sito di smaltimento illecito di materiale radioattivo e tossico – venisse bonificato, per evitare che altri abitanti dei paesi confinanti col fiume, continuassero ad ammalarsi e a morire, mentre chi sapeva stava in silenzio a guardare senza fare niente.  E se una voce può essere ignorata, 30 mila voci  non passano invece inosservate. O Per lo meno ci si aspetta questo.

Ma dopo 2 anni la bonifica non è ancora arrivata, nonostante i cittadini si siano battuti non solo in occasione della manifestazione per ottenerla. Si sono susseguiti solo molti giudizi a riguardo; numerose le analisi e i carotaggi effettuati da ArpaCal e Ispra, contrastanti tra loro fino all’ultimo. Ma come può accadere una cosa del genere?  I terreni del fiume hanno una radioattività di cesio 137 più alta di  Vercelli, città più colpita in tutta Italia dalle ricadute radioattive del disastro di Chernobyl, un fatto inspiegabile (o forse si?).

I cittadini aspettano che il territorio su cui vivono torni ad essere “pulito”, che la verità venga a galla, che i colpevoli vengano individuati e anche se nessuna condanna potrà riportare in vita chi, per colpa della radioattività, purtroppo non sarà lì a veder punito il proprio “mandante”.

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Fiume Oliva: Radioattività da record

29 luglio 2011 Commenti chiusi
Nei terreni contaminazione da cesio 137 circa 10 volte superiore alla media regionale.
L’Ispra: “colpa di Chernobyl”.
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Fonte:  ”CORRIERE DELLA CALABRIA” 23 giugno 2011

di Roberto De Santo

Valle Oliva - Un puzzle complesso. Maledettamente difficile da ricomporre, i cui pezzi, a prima vista idonei ad incastrarsi perfettamente l’uno con l’altro, non riescono però a restituire appieno il quadro complessivo. Le indagini portateavanti dalla Procura di Paola sul presunto inquinamento della vallata dell’Oliva hanno questa caratteristica: ogni nuovo singolo tassello trovato non si incastra mai con i precedenti. Nonostante la sagoma coincida con quella ricercata. Nonostante sembri restituire il profilo dell’immagine finale.  Il dato che emerge dalla relazione del 6 giugno scorso, stilata dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), conferma questo fil rouge: valori di contaminazione di cesio 137 circa dieci volte superiori alla media regionale ma «riconducibili - secondo gli esperti dell’Ispra - a fenomeni naturali di accumulo di radionuclidi». In particolare nel documento trasmesso al procuratore della Repubblica di Paola, Bruno Giordano, titolare dell’inchiesta  sull’Oliva, i tecnici dell’Istituto hanno riscontrato un valore anomalo di cesio 137 in località Petrone di Aiello Calabro: 132 Bq/kg (Bequerel per chilogrammo di terreno). Un dato elevatissimo. Mai riscontrato prima in nessuna altra parte della regione. La letteratura scientifica in materia, infatti, parla di un valore medio in Calabria di presenza di questo radionuclide artificiale, altamente cancerogeno, che si ferma attorno a 15-16 Bq/Kg. Inoltre, dalle risultanze di alcuni tecnici, incaricati dallo stesso procuratore di effettuare studi comparati sui terreni del Tirreno cosentino, addirittura questo valore risulta ancora più basso: il picco più alto registrato in quest’area è pari a 8,9 Bq/kg. Ebbene, nonostante tutto questo, gli esperti dell’Ispra concludono la loro ultima relazione in questo modo: «Sulla base delle misure effettuate, si ritiene che la presenza di cesio 137 sia riconducibile a fenomeni naturali di accumulo del radionuclide derivante dalle ricadute delle esplosioni nucleari degli anni ‘60 e dall’incidente di Chernobyl». Identica conclusione a cui erano giunti gli stessi tecnici dell’Ispra già a febbraio scorso quando, dopo una lunga fase di analisi dei campioni prelevati nell’Oliva, durata oltre otto mesi, avevano sentenziato: effetti di Chernobyl. In quell’occasione, i valori riscontrati dagli esperti dell’Istituto erano già alti. Nello stesso sito, già esaminato, di località Petrone l’Ispra aveva fissato questo valore a 93 Bq/kg. Mentre in altri campioni prelevati nel 2010 in tre siti distinti in località Foresta di Serra d’Aiello, il cesio 137 rinvenuto era pari rispettivamente a 29,6 Bq/kg, 14,4 Bq/kg e, infine, a 15,2 Bq/kg. Valori alti ma riconducibili, per i tecnici dell’Ispra, all’incidente  alla centrale Chernobyl del 1986 e ad altri fenomeni di contaminazione “naturale”. Eppure, dalle rilevazioni sulle ricadute naturali derivanti da incidenti nucleari nel mondo, riportate dal Notiziario dell’Enea (maggio-giugno 2006) e dall’Hearth Physics Abstract, il riferimento al cesio 137 per il Sud Italia ha come valore statistico 6 Bq/kg. Contraddizioni che non si fermano qui.

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Da una relazione effettuata dall’Arpa Piemonte che ha monitorato dal 1997 al 2002 l’area della Provincia di Vercelli (tra le zone italiane più colpite dalle ricadute radioattive dell’incidente di Chernobyl) emerge che la presenza di cesio 137 è più bassa che in alcuni siti monitorati nella vallata dell’Oliva. Da quello studio si legge, infatti, che la quantità di cesio è passata da 151 Bq/kg del 1997 a 54 Bq/kg del 2002. Cioè, in quest’ultimo caso, meno della metà del valore rinvenuto a febbraio scorso in località Petrone e praticamente pari a quello ritrovato in altri due siti (200 metri dallo stesso sito di Petrone e in località Foresta). Riferimenti temporali importanti se si tiene conto che la contaminazione da cesio 137 decade con il trascorrere degli anni e, addirittura, in 30 anni si dimezza. Dall’incidente di Chernobyl, ultimo episodio di ricaduta significativa di cesio 137 registrabile nelle analisi dell’Ispra dello scorso febbraio, sono trascorsi già 25 anni. Elementi che cozzano con le conclusioni a cui è giunto l’Ispra a proposito della quantità elevata di questo radionuclide nella valle dell’Oliva Sostanza, che ricordiamo, si forma solo dopo l’esplosione di un ordigno atomico o nel processo di generazione elettrica da fonte nucleare. La tesi è riscontrabile anche nelle relazioni effettuate, nel corso dell’indagine giudiziaria, dai consulenti tecnici nominati dalla Procura di Paola che escludevano, già nel passato, chiaramente questa ipotesi. Soprattutto alla luce della presenza di cesio 137 rinvenuta anche in profondità. Nel 2004 l’Arpacal riscontrò, infatti, questo radionuclide anche nel sottosuolo dell’Oliva. Ad esempio, in località Foresta, alla profondità di cinque metri i tecnici dell’Agenzia regionale trovarono questo isotopo radioattivo con un valore pari a 3,59 Bq/kg. Si parlò anche allora di Chernobyl ed anche allora i tecnici di parte confutarono questa ipotesi. «Il cesio 137 – scrisse uno dei consulenti della Procura – è un radionuclide artificiale che, normalmente, si mantiene in superficie e non scende, in terreni argillosi e misti anche in tempi lunghi, in profondità superiori a 40-50 cm». E, sempre durante un’indagine effettuata da un tecnico di fiducia della Procura su campioni prelevati nel 2007 ad una profondità di 4 metri in località Foresta, alla sinistra idraulica del torrente Oliva, fu riscontrata la presenza di cesio 137 con valori pari a 3Bq/kg. «È da ritenere non escludibile e forse possibile l’ipotesi che il cesio 137 – si leggeva nella relazione conclusiva presentata in Procura nel 2008 – possa essere una propaggine o dispersione proveniente da una zona interrata più ricca di detto isotopo artificiale radioattivo». Ancora, in un’altra relazione consegnata sempre nel 2008 nella mani del procuratore su nuovi rinvenimenti di cesio 137 nel sottosuolo dell’Oliva, si leggeva: «La presenza di cesio 137 in profondità può essere giustificata, molto verosimilmente, solo dal fatto che il materiale che lo contiene possa avere origine o provenienza diverse da quella un cui è stato trovato, ossia da scarico illecito». Rinvenimenti importanti che contrastano con le ultime analisi effettuate dall’Ispra. Nel rapporto arrivato in Procura a febbraio scorso a firma dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, infatti, la presenza di cesio viene riscontrata con valori significativi soltanto in superficie. Ma non nel sottosuolo come invece era stato segnalato dai tecnici della Procura. Ancora combinazioni. Maledette combinazioni che, secondo l’Ispra, portano a far concentrare in maniera massiccia il cesio 137 proveniente probabilmente da Chernobyl proprio nella vallata dell’Oliva. La stessa area di cui si sospetta da anni che sia stata utilizzata come sito di smaltimento illecito di materiale radioattivo e tossico. Ed a pochi chilometri di distanza, il 14 dicembre del 1990 la motonave Rosso, tristemente nota con la precedente denominazione di Jolly Rosso per il traffico di sostanze tossico-nocive provenienti dal Libano, si spiaggiò in circostanze non ancora del tutto chiarite. Combinazioni.

Tante combinazioni che non permettono di ricomporre, ancora una volta nella sua interezza, quel puzzle così pazientemente ricostruito finora dal procuratore Giordano. «Stiamo valutando tutti gli elementi emersi dalle indagini - afferma caparbiamente il procuratore capo di Paola – e appena arriveranno le conclusioni finali dell’Ispra cercheremo di sciogliere tutti i nodi e ci determineremo sul da farsi». Al vaglio della Procura, non bisogna dimenticare, c’è anche la gravissima contaminazione da metalli pesanti riscontrata nelle acque e nei terreni della vallata dell’Oliva. Le analisi effettuate dai tecnici dell’Arpa Calabria e validata dall’Ispra confermano la tesi. I dati emersi dalle indagini effettuate nel 2010 su 100 carotaggi di terreni lungo l’Oliva e dall’esame dei valori di 35 piezometri piazzati nelle acque del torrente sono sconcertanti: non meno di centomila metri cubi di fanghi industriali la cui provenienza, vista la caratteristica e la mole, secondo la Procura, non può essere locale. Si tratta per lo più di arsenico (riscontrato con valori fino a 10 volte superiori alla norma), cromo, nickel, antimonio, zinco e cobalto.  Ma anche idrocarburi, cadmio, cromo esavalente e rame. Tutte sostanze riscontrate in quantità almeno tre volte superiore ai limiti di legge nei sottosuoli dell’intera zona. Un inquinamento che non ha risparmiato le falde acquifere dell’Oliva. Una contaminazione così alta da costringere la stessa Procura a far sigillare, negli anni, almeno una dozzina di pozzi di raccolta dell’acqua provenienti dall’alveo del fiume ed utilizzati per anni in agricoltura e nell’allevamento, anche industriale, di animali della zona. Dunque, una sorta di pattumiera a cielo aperto, la vallata dell’Oliva, utilizzata per smaltire rifiuti di ogni genere che, al di là delle responsabilità penali tutte ancora da accertare, pone ora prepotentemente il problema della bonifica. «La Procura – conclude Giordano – ha fatto tutto quello che era nelle sue possibilità per accertare i fatti accaduti nell’Oliva. Forse anche oltre le sue competenze. Sarà, comunque, necessario intercettare tutte le risorse utili a bonificare l’intera area».

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