Calabria al Veleno
Calabria al veleno
Un’area radioattiva a pochi chilometri dal luogo del naufragio della motonave Rosso. Il sospetto di altri traffici di sostanze tossiche via mare. Con una grave minaccia per la salute. Ecco le ultime scoperte degli investigatori
La motonave “Jolly Rosso” incagliata sulla costa di Paola, in Calabria
Alla fine è emerso il peggio del peggio. Si è trovata un’area collinare, a pochi chilometri dal litorale cosentino, contaminata dalla radioattività. Si è scoperto che in quella stessa zona è avvenuto lo smaltimento di rifiuti tossici provenienti dalle lavorazioni industriali. Sono spuntate testimonianze che collegano questi ritrovamenti a traffici, via mare, di scorie pericolose. E soprattutto, si è riscontrato nei comuni limitrofi l’aumento dei tumori maligni, con un pericolo a tutt’oggi incombente sulla popolazione.
Una vicenda terribile che parte il 14 dicembre 1990 dalla spiaggia di Formiciche, Calabria, mezz’ora di macchina a nord di Lamezia Terme. Pochi ombrelloni sparsi, turismo familiare e l’azzurro tenue del mare costeggiato dalla ferrovia. Qui, 19 anni fa, si è arenata davanti agli occhi perplessi dei residenti la motonave Rosso. Secondo l’armatore Ignazio Messina, si trattò di un incidente provocato dal mare in burrasca. Ai magistrati, invece, venne il dubbio che a bordo ci fossero sostanze tossiche o radioattive: bidoni che avrebbero dovuto essere smaltiti sui fondali marini, e che causa maltempo sarebbero finiti sulla costa, per poi sparire nell’entroterra. A lungo, come riferito in numerosi articoli da “L’espresso”, gli investigatori hanno cercato di scoprire la verità. Sia sul carico della Rosso, sia sulle altre carrette del mare: imbarcazioni in condizioni pietose, mandate a picco nel Mediterraneo colme di scorie. Un lavoro segnato da mille ostacoli e costanti minacce. Il 13 dicembre 1995, dentro questo scenario, è morto in circostanze più che sospette il capitano di corvetta Natale De Grazia, consulente chiave della procura di Reggio Calabria. E intanto, dall’intreccio tra Italia e altre nazioni (europee e non, comunque disposte a tutto per smaltire pattume tossico) sono uscite le figure di agenti segreti, politici ai massimi livelli, faccendieri massoni e onorati membri della ‘ndrangheta. Ma nonostante le migliaia di verbali, di indizi, di indicazioni sui presunti luoghi di occultamento, non si è raggiunta per anni la certezza. Ancora il 13 maggio scorso, il gip Salvatore Carpino si è trovato ad archiviare il sospetto di affondamento doloso e truffa pendente sugli armatori Messina. E loro hanno festeggiato: dichiarando che quest’atto chiude una stagione di “accuse infondate, calunnie, subdole diffamazioni e campagne stampa fondate sul nulla”.
Tutto a posto dunque? Nessuno ha trafficato via mare in rifiuti nucleari? Nessuno, soprattutto, è più autorizzato a ipotizzare retroscena inconfessabili per il caso “Rosso”? La risposta è no, purtroppo: niente è ancora tranquillo in Calabria. Poco è stato definitivamente chiarito, in questa storia, e il primo a riconoscerlo è il procuratore capo di Paola, Bruno Giordano: il quale non soltanto sta continuando a indagare, ma ha trovato quello che si sospettava da anni: appunto la presenza, a pochi chilometri dalla spiaggia di Formiciche, sulla strada provinciale 53 che sale in collina, di un’area radioattiva. “Prudenza e determinazione”, sono comunque le parole d’ordine. “Anzi: ancora più prudenza che determinazione”, si corregge Giordano. Teme si scateni il panico, in quest’angolo di campagna che prende i nomi di Petrone- Valle del Signore e Foresta, e che è incastrato tra i comuni di Aiello Calabro e Serra d’Aiello, lungo il greto del fiume Oliva. Già nel 2004, l’Arpacal (Agenzia regionale protezione ambiente calabrese) aveva qui scoperto metalli pesanti e granulato di marmo, utilizzato dalla malavita per schermare la radioattività.
Allora, il perito Ornelio Morselli certificò la presenza eccedente di rame e zinco, ma anche di policlorobenzeni (Pcb) con “caratteristiche tossicologiche analoghe alle diossine”. Se a questo si somma che un funzionario dell’ex genio civile, ha ammesso di avere visto un fusto nella briglia del fiume Oliva, si capisce perché l’ex pm di Paola, Francesco Greco, abbia ipotizzato un nesso tra il ritrovamento dei rifiuti e la motonave Rosso; e più in generale, un legame tra le sostanze tossiche e i traffici marittimi. Una tesi che qualcuno ha cercato di catalogare come azzardata, ma che oggi, con il ritrovamento di un documento inedito, assume tutt’altro spessore. Nel 2005, infatti, un investigatore della procura di Paola ha accompagnato al fiume Oliva Amerigo Spinelli, poliziotto municipale di Amantea (paesino accanto alla spiaggia di Formiciche). E nella sua relazione finale, ha scritto: “Spinelli indicò un’area che (…) corrisponde al greto della località Valle del Signore ed aree adiacenti “. Di più: Spinelli ha riferito “che un’ampia zona compresa tra la predetta zona e almeno 200 metri a ovest (…) era stata interessata dal deposito di rifiuti/materiali derivanti dallo smantellamento della motonave Rosso”.
In seguito, la magistratura ha indagato tra Aiello Calabro e Serra d’Aiello, Amantea e San Pietro in Amantea. Ha cercato riscontri, materiali, tutto pur di inquadrare la situazione. E infatti, nel 2007, è arrivato il secondo colpo di scena, anch’esso sconosciuto fino a questo momento. Due ufficiali hanno notato dei camion che prelevavano terreno dai torrenti Catocastro e Valle del Signore (affluente dell’Oliva) per il ripascimento delle coste. E quando hanno ispezionato le spiagge interessate, hanno trovato svariati oggetti ferrosi, tra i quali un “coperchio (…) presumibilmente appartenente a un fusto”, pezzi di lamiera e “quattro tubi di diverso diametro” che “possono essere ricondotti, verosimilmente, a parte delle protezioni in uso sui traghetti Ro-Ro”: navi come la Rosso, con lo sportello ad hoc per imbarcare i carichi su ruote. A questo punto, l’ispettore che due anni prima aveva accompagnato Spinelli al fiume Oliva, è tornato in azione: ha svolto un nuovo sopralluogo, ha confrontato quel panorama con le fotografie scattate dagli ufficiali, e ha messo nero su bianco: “Con certezza posso dire che i due siti coincidono, e (che il perimetro) è individuato in agro di Aiello Calabro, località Valle del Signore e aree adiacenti”. In altre parole, è probabile che i rifiuti tossico-radioattivi abbiano viaggiato per mare, e siano stati occultati qui. La stessa conclusione, d’altronde, suggerita da altri indizi concordanti. Il primo, a cavallo tra il 2007 e il 2008, è che l’Arpacal e il perito Morselli hanno riscontrato in profondità a Foresta agro di Serra d’Aiello, la presenza di Cesio 137 (lo stesso fuoriuscito da Chernobyl). Il secondo indizio, datato novembre 2008, è che grazie ai carotaggi “nelle immediate adiacenze della briglia del fiume Oliva”, si è trovato un sarcofago (di dimensioni ancora ignote) in cemento a circa 10 metri di profondità. E all’interno, scrivono i consulenti della procura, “c’erano concentrazioni elevate di mercurio”, presente anche in altri campioni. Da qui, parte l’ultima svolta di questo incubo. Dalla testardaggine con cui il procuratore Giordano insegue reati che vanno dal disastro ambientale all’avvelenamento delle acque. “Questioni fondamentali sotto il profilo della pubblica tranquillità “, le definisce. Per questo, a fine 2008, ha incaricato l’università della Calabria e il Cnr di sondare, con cartografie satellitari, eventuali anomalie termiche nell’entroterra calabro (segno di radioattività). E il 17 febbraio è arrivata la risposta: positiva.
Le anomalie ci sono, addirittura “evidenti ” a Serra d’Aiello: proprio nella zona “prospiciente al fiume Oliva”. Tanta è la delicatezza del problema, da richiedere un controllo diretto sul terreno, con il supporto del reparto Nbcr (Nucleare batterico chimico radiometrico) dei Vigili del fuoco di Cosenza e Catanzaro. E gli esiti sono tanto gravi quanto inequivocabili: “Il monitoraggio ha permesso di individuare limitate seppur significative anomalie di radioattività”. Il 2 marzo seguente, l’Arpacal ha trasmesso alla procura “l’esito delle analisi radiometriche campali” attorno al fiume Oliva. Ed è giunta l’ennesima conferma, supportata dai rilievi in una vecchia cava che “si estende per 200-300 metri dalla provinciale 53, al chilometro sei”, di fianco all’Oliva. Il risultato è che ci sono tracce di contaminazione. Non solo: ci sono “radionuclidi artificiali” che “non dovrebbero normalmente essere presenti nel terreno”. Ma sono stati rilevati. Ecco perché, sempre Arpacal, ha suggerito ai magistrati di svolgere ancora accertamenti, per “escludere un qualsiasi aumento del rischio alla popolazione, soprattutto di inalazione e/o ingestione”. Ed ecco perché, in questo contesto, assume speciale rilevanza la consulenza di Giacomino Brancati, dirigente del settore prevenzione nel Dipartimento calabrese per la tutela della salute. Il quale, in un documento di 300 pagine, segnala espressamente “l’esistenza di un pericolo attuale per la popolazione residente nei territori dei comuni di Amantea, San Pietro in Amantea e Serra d’Aiello, circostante al letto del fiume Oliva a sud della località Foresta (centri di Campora San Giovanni, Coreca e Case sparse, comprese tra il mare e Foresta)”. Un allarme, dice Brancati, “dovuto alla presenza di contaminanti ambientali capaci di indurre patologie tumorali e non”, a cui va sommato “un consistente danno ambientale”.
Possibile, con queste premesse, infilare la vicenda in un faldone e seppellirla in archivio? Ha senso trascurare i segnali che rievocano il mistero della motonave Rosso? Risponderanno nel merito la Protezione civile, i carabinieri del Noe e il ministero dell’Ambiente: tutti consultati dal procuratore Giordano. Nel frattempo, è il caso di ricordare un ultimo dettaglio. Il 9 giugno 2005, “L’espresso” ha pubblicato il dossier di un ex boss della ‘ndrangheta che si accusò di avere affondato, d’accordo con il clan Muto, carrette del mare zeppe di sostanze tossiche. Tra le navi, ne indicava tre che transitavano “al largo della costa calabrese, in corrispondenza di Cetraro, provincia di Cosenza”. E proprio in questo tratto di mare, a 487 metri di profondità, l’Arpacal ha individuato il 14 dicembre scorso un “rilievo di forma ellittico/circolare”, lungo “circa 80 metri e largo non più di 50, che si eleva rispetto alle profondità medie circostanti di circa 4 metri”. Guarda caso, agli investigatori risulta che il titolare della vecchia cava accanto al fiume Oliva (oggi defunto) fosse taglieggiato dagli ‘ndranghetisti Muto. «L’ennesima traccia del meccanismo di smaltimento illegale “, dicono. “L’ennesimo passo verso una verità scomoda”.
Ha collaborato Paolo Orofino