Uranio Rosso
Uranio Rosso
Materiale radioattivo trasportato sulla nave dei veleni. E poi bruciato a Porto Marghera. Una verità taciuta per 15 anni. E nuovi interrogativi senza risposta
di Riccardo Bocca
I documenti non lasciano dubbi. La motonave Jolly Rosso dell’armatore Ignazio Messina, inviata nel 1989 dal nostro governo a Beirut per recuperare circa 2 mila tonnellate di rifiuti tossici scaricate in precedenza da un’azienda lombarda, trasportava materiale radioattivo. Uranio, per l’esattezza. E quello stesso uranio, all’insaputa della popolazione, è stato bruciato dalla società Monteco in un inceneritore di Porto Marghera, dove malgrado la consapevolezza del pericolo lo smaltimento è proseguito per mesi. È questa la verità che per 15 anni è stata taciuta, e che oggi trova conferma in un referto del 28 febbraio 1990 intestato all’Unità locale socio sanitaria 36 di Venezia. La relazione include l’analisi della condensa di fumi usciti dal forno Sg 31 in due momenti diversi: il 19 gennaio 1990 e il successivo 7 febbraio. In entrambi i casi l’uranio è stato cercato e trovato. La prima volta con una concentrazione di 0,005 milligrammi per metro cubo, la seconda con una presenza appena inferiore di 0,004. “Ormai”, commenta Gianni Mattioli, docente di Fisica all’università La Sapienza di Roma, “nessuno può negare che sia stata smaltita una sostanza radioattiva. Anzi, è necessario aprire un’inchiesta per capire che tipo di uranio fosse, visto che la Ulss 36 non lo indica. Si trattava di combustibile esaurito di reattori?”, si chiede Mattioli: “O di uranio impoverito? O ancora, di combustibile nucleare? Comunque sia, difficilmente proveniva dall’Italia: le nostre attività nucleari erano assai limitate, e soprattutto soggette a scrupolosi controlli istituzionali”. L’altro punto interrogativo, riguardo allo smaltimento di uranio avvenuto a Porto Marghera, è costituito dal possibile inquinamento dell’ambiente circostante. Mattioli, dati alla mano, sostiene che “le concentrazioni rilevate dalla Ulss 36 sono certamente preoccupanti e superano le percentuali allora fissate per legge”. Ma sottolinea anche che le analisi hanno considerato i fumi del camino, i quali “prima di toccare terra subiscono una significativa diluizione”. Per questo, dice, è indispensabile sapere se sono stati svolti ulteriori controlli; o se invece, nella fretta di seppellire l’accaduto, nulla sia stato fatto. Un’ipotesi, quest’ultima, ancora più grave se si scorre l’intera lista delle sostanze riscontrate dalla Ulss 36. “Tra queste”, nota Mattioli, “ci sono cobalto e stronzio. Sostanze che avrebbero meritato ulteriori approfondimenti”. Lo stesso genere di scrupoli lo avevano avuto nell’89 le organizzazioni ambientaliste, a dir poco perplesse sullo smaltimento dei fusti della Jolly Rosso a Porto Marghera. Sotto accusa era il sistema di analisi, a loro avviso inefficace, nonché la scelta di un forno che non era sottoposto al controllo dell’Istituto superiore della sanità. Critiche alle quali si sarebbe aggiunta la protesta di 50 operai del Petrolchimico, i quali inviarono una petizione alla Ulss 36 per denunciare “l’insostenibile situazione creatasi in seguito alle continue emissioni di fumi e per altre sostanze di origine ignota”. In quel periodo, continuava la lettera, “si verificano situazioni ambientali di invivibilità, sia all’interno degli impianti che per la popolazione della cintura esterna, e la situazione è molto peggiorata con l’inizio dello smaltimento dei fusti della Jolly Rosso”. Parole durissime, timori precisi. Ma nulla che potesse impensierire il socialista Corrado Clini, allora direttore del servizio di Igiene pubblica alla Ulss 36 e oggi direttore generale al ministero dell’Ambiente. Le sue dichiarazioni alla stampa nel presentare lo smaltimento dei fusti della Jolly Rosso erano state rassicuranti: “Bruciando due copertoni”, aveva detto, “si provocherebbero danni all’ambiente maggiori di quelli che comporta questa operazione”. Quanto alle accuse degli ambientalisti, la sua risposta arrivò il 21 novembre 1989 con un esposto alla Procura di Venezia “per le valutazioni espresse in merito allo smaltimento a Marghera dei rifiuti tossici provenienti dalla Jolly Rosso”. Tali valutazioni, sosteneva Clini, “tendono a diffondere disinformazione per creare allarme tra la popolazione”. D’altro canto tutta la storia della Jolly Rosso in Libano è stata segnata da strani eventi. Fin dal gennaio del 1989, quando la motonave dell’armatore Messina fu inviata dal ministero degli Esteri per riportare in Italia le migliaia di fusti tossico-nocivi depositate illegalmente in Libano. “La Jolly Rosso”, ha raccontato l’amministratore delegato Andrea Gais alla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti, “era diventata una piccola nave rispetto alle altre della società. Aveva dimensioni che andavano bene per viaggi nel Mediterraneo, per rotte brevi”, come appunto quella per il Libano. Detto questo, precisa Gais, “noi non eravamo in diretto contatto col governo. Una società ha vinto la gara per ritirare questi rifiuti e si è messa sul mercato cercando una nave a noleggio”. Quello che l’amministratore delegato non ha raccontato alla Commissione è invece il cumulo di coincidenze che avvicina la sua società alla Jelly Wax, l’azienda lombarda che aveva trasportato i rifiuti tossici in Libano. Titolare di quella struttura era un certo Renato Pent, personaggio definito dagli inquirenti “noto trafficante di rifiuti tossico nocivi”. Lo stesso Pent veniva indicato nelle indagini come socio della società O.d.m. (Oceanic disposal management), che a sua volta era controllata dal faccendiere Giorgio Comerio. E lo stesso Comerio era l’uomo che nel 1988 aveva trattato con l’armatore Messina l’acquisto della Jolly Rosso. Di più: era il promotore del progetto di smaltimento sottomarino per scorie radioattive che nel 1990 sarebbe stato trovato sulla motonave Rosso, ex Jolly Rosso, spiaggiata in Calabria dopo un misterioso principio di affondamento. Elementi che allora nessuno poteva conoscere, e che infatti non rovinarono l’arrivo della Jolly Rosso nel porto di Beirut, il 6 gennaio 1989. A complicare le cose fu piuttosto un altro oscuro episodio, del quale le agenzie di stampa diedero notizia il 10 gennaio 1990. Verso metà mattina, si leggeva in un lancio dell’Ansa, “la nave stava caricando i rifiuti tossici, quando un ufficiale della milizia cristiana ha sparato da bordo verso la troupe di un canale tv americano che dal vicino molo stava riprendendo la scena”. Secondo l’agenzia i colpi sparati erano stati tre o quattro. Dopodiché il comandante della nave era intervenuto “sospendendo le visite dei giornalisti che “ispezionavano” le operazioni di carico” e avvertendo l’ambasciata italiana, la quale aveva “inviato sul posto un pullmino blindato con agenti di sicurezza”. Un episodio che secondo l’agenzia era stato “confermato ufficialmente”, e che nel corso delle ore si era arricchito di particolari, come il nome dell’emittente televisiva (Wtn) e la nazionalità della troupe (libanese). Ma la sera stessa l’armatore Ignazio Messina aveva ridimensionato il caso, rendendo pubblica una comunicazione via telex tra un suo impiegato e Beirut in cui la sparatoria veniva ridotta all’errore di “uno stupido in coperta, il quale aveva sparato qualche colpo in aria mentre un gruppo di giornalisti libanesi si apprestava a salire a bordo”. Con queste premesse, nessuno si stupì per quanto successe al ritorno della Jolly Rosso in patria, quando nessuno voleva stoccare quelle scomode tonnellate di sostanze tossiche (e, possiamo dire oggi, radioattive). Per quasi tre mesi, dal 18 gennaio al 10 aprile 1989, la motonave non è stata fatta entrare nel porto di La Spezia, restando in rada mentre il governo e le autorità regionali cercavano di accordarsi sullo stoccaggio delle sostanze a rischio. Da parte sua il sindaco di La Spezia aveva rassicurato i suoi cittadini dicendo che “i rifiuti sono tutti infustati e classificati secondo le norme internazionali”. Ma già il 27 febbraio 1989 erano spuntate le prime preoccupazioni. Durante un’ispezione a bordo, gli ufficiali della capitaneria di porto avevano notato una decina di fusti con preoccupanti segni di rigonfiamento. E il 20 marzo l’allarme si era ripetuto. Da uno dei fusti rigonfiati era uscita una non meglio precisata “sostanza”, tanto che della questione era stato informato il pretore di La Spezia Bruno Giardina, il quale aveva compiuto un sopralluogo con la commissione tecnica costituita nelle settimane precedenti. Ora, sapendo con certezza che la Jolly Rosso trasportava uranio, tutti questi momenti assumono un significato diverso, più preoccupante. Anche perché l’intera partita dello stoccaggio e dello smaltimento dei fusti non è durato qualche mese, ma addirittura anni. Fino al maggio 1993, quando il commissario ad acta Sauro Baruzzo annunciò che entro un mese sarebbero stati rimossi dal porto di La Spezia gli ultimi 2 mila fusti. Nel frattempo la Jolly Rosso sarebbe rimasta a lungo in disarmo, partendo a fine 1990 per l’ultimo viaggio che l’avrebbe vista arenata su una spiaggia calabrese. E intanto, il 19 gennaio e il 7 febbraio di quello stesso anno, dal camino Sg 31 di Porto Marghera sarebbero usciti i fumi radioattivi. Eppure, ancora l’8 gennaio 1990 a Porto Marghera non c’era traccia dell’uranio trasportato sulla Jolly Rosso. O perlomeno non c’era nella relazione sullo smaltimento dei fusti che il direttore del servizio di igiene pubblica della Usll 36 Corrado Clini spedì al ministero dell’Ambiente. Il motivo dell’invio era l’interrogazione che un gruppo di parlamentari aveva presentato alla Camera: “Un’interpellanza”, scriveva Clini, “che fa riferimento a informazioni infondate, già diffuse dal Coordinamento Verdi di Marghera” e già oggetto di querela. Ma quello che merita attenzione non è tanto il suo commento, quanto la nota tecnica allegata per il ministero allora guidato da Giorgio Ruffolo. “Un documento dal quale spuntano due elementi singolari”, dice Paolo Rabitti, consulente tecnico del pm Felice Casson nel processo al Petrolchimico di Marghera. “Il primo è che non ha una data e nemmeno una firma. Il secondo, che Clini difende la validità dell’impianto Sg 31, sostenendo che l’assenza della camera di postcombustione era consentita da una delibera del Comitato interministeriale dell’85. Una delibera che diceva l’esatto contrario”. Dunque, stando agli esperti, l’uranio trasportato dalla motonave Jolly Rosso per conto del governo italiano sarebbe stato smaltito in segreto e in un forno obsoleto. Non a caso, nelle ultime righe della nota tecnica si comunicava al ministero un progetto di ammodernamento che sarebbe partito dopo l’operazione Jolly Rosso. E c’è di più. “Nella relazione”, dice Rabitti, “si taceva la presenza dello zolfo nei fumi con una concentrazione circa quattro volte superiore al limite di legge. Un dato che avrebbe dovuto indurre tutti a una maggiore prudenza, e che apparentemente è stato trascurato”. Ora le domande si accumulano. Perché Corrado Clini non ha comunicato ai suoi superiori gli “inconvenienti” che si stavano presentando a Porto Marghera? Perché nessuno della Ulss 36 ha lanciato l’allarme per l’emissione di sostanze radioattive? Che fine ha fatto il materiale radioattivo rimasto nei sistemi di depurazione dei fumi dell’impianto Sg 31? E ancora: è andata veramente così, o qualcuno più in alto era consapevole di quello che si poteva trovare aprendo i fusti della Jolly Rosso? Gli esperti sottolineano che è molto anomalo cercare uranio in rifiuti ufficialmente non radioattivi, a meno che non ci sia un mandato preciso. Il consulente Paolo Rabitti conferma che “in questo settore non si cercano stelle alpine sulla spiaggia”, e dalle carte rileva che l’uranio era stato cercato altre due volte, prima di individuarlo, “con un’insistenza che desta perplessità”. Ma l’ipotesi che il governo sapesse dell’uranio sulla Jolly Rosso, e che sia stato coinvolto nella successiva fase di smaltimento, resta a tutt’oggi un’ipotesi. Una delle tante su cui dovrebbe lavorare la magistratura.