Veleni, le conferme e le mezze verità
I tecnici dell’Ispra convalidano i dati dell’Arpacal sul livello di contaminazione chimica. Ma restano i dubbi sulla radioattività riscontrata nell’area.
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di Roberto De Santo
(fonte: Corriere della Calabria)
Fiume Oliva - Ottantasettemila metri cubi di veleni. Questo è l’ultimo dato che rappresenta l’ennesimo tassello del puzzle chiamato Valle dell’Oliva. Sono stati i tecnici dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) a fornire questo dato, nel corso di un vertice operativo con l’Arpa Calabria, al procuratore capo di Paola, Bruno Giordano, titolare dell’indagine sull’inquinamento di quest’area del Tirreno cosentino. Un quantitativo di sostanze tossico-nocive che, secondo i calcoli degli uomini della Procura di Paola, per essere trasportate hanno comportato circa ottomila viaggi di camion di grandi dimensioni. Migliaia di viaggi che questi grossi autocarri avrebbero effettuato nell’area accompagnati, poi, dall’utilizzo di altri mezzi meccanici necessari a nascondere i veleni nel sottosuolo dell’area. Un lavoro lungo e delicato, avvenuto nel silenzio assordante degli abitanti dei luoghi, che sarebbe durato diversi anni. Stando alle stime degli investigatori, almeno vent’anni. Cioè da quando, agli inizi degli anni 90, queste zone sono state interessate dalle prime, sostanziali, modifiche dei luoghi. Uno studio aereo-fotografico comparato della vallata, nelle mani del procuratore capo, comproverebbe proprio questo assunto. Anni nei quali, secondo l’ipotesi investigativa della Procura di Paola, nei terreni, nell’alveo e nelle acque del torrente che bagna i Comuni di Amantea, San Pietro in Amantea, Aiello Calabro e Serra d’Aiello sarebbero stati interrati, anche con la complicità degli uomini della malavita organizzata, non solo sostanze tossico-nocive ma anche radioattive. Non bisogna dimenticare che alcuni dei rinvenimenti avvenuti nell’area sarebbero dovuti proprio alle indicazioni fornite da alcuni uomini affiliati al clan Muto di Cetraro. Rivelazioni, contenute in una informativa specifica consegnata nelle mani del procuratore Giordano, che hanno permesso agli inquirenti di circoscrivere le ricerche su quattro o cinque siti risultati poi contaminati. Un piano criminale, secondo la Procura, teso a riempire di veleni una delle più suggestive aree naturali del Tirreno cosentino. E le analisi effettuate nella vallata dell’Oliva da parte di periti della Procura ma anche dai tecnici dell’Arpacal, già anticipate nei precedenti numeri dal
Corriere della Calabria, comproverebbero questa tesi. E, intanto, un’altra verità attende la conferma solo processuale: alcune di queste aree contaminate dai veleni erano private. Sotto questi terreni, utilizzati quotidianamente fino allo scorso anno per la coltivazione di prodotti agricoli locali ma anche per il foraggio degli animali, sono stati rivenuti fanghi industriali altamente nocivi. Secondo le indagini, alcune decine di migliaia di metri cubi. Una verità terribile che dimostrerebbe come la contaminazione tossica sia entrata per anni direttamente nella catena alimentare degli abitanti della zona. Per questo motivo la Procura ha già stralciato la posizione di quattro soggetti, risultati appunto proprietari o concessionari di tre fondi coltivati, che sono stati già rinviati a giudizio. Per loro l’accusa è quella di aver trasformato i propri terreni in vere e proprie discariche illecite di materiale altamente pericoloso. Il vertice con l’Ispra Intanto dai dati dell’Ispra, che saranno ufficialmente consegnati alla Procura entro fine settembre, emergono nuove conferme, seppure parziali, sull’ipotesi di inquinamento della vallata. In particolare i tecnici dell’Istituto hanno convalidato praticamente tutte le analisi chimiche che l’Arpacal ha effettuato sui campioni prelevati nel corso degli ultimi anni attraverso carotaggi, scavi, rilievi di superficie, verifiche stratigrafiche e indagini geofisiche sull’intera area. Soprattutto in località Foresta di Serra d’Aiello e nelle località Carbonara e Giani di Aiello Calabro. Da quelle analisi era emerso un livello elevatissimo di contaminazione dell’area da parte di fanghi industriali la cui provenienza, secondo la Procura, per caratteristiche e quantitativi riscontrati, non può essere locale. I dati, ora confermati dall’Ispra, indicano, infatti, la presenza nei terreni e nel sottosuolo della zona di resti della lavorazione di idrocarburi difficilmente riscontrabile in zona e con valori altissimi: dieci volte superiore al fondo naturale. Ma anche metalli pesanti come l’arsenico e il rame sempre con una concentrazione fino a dieci volte superiore alla norma. Da quelle analisi emerse anche un quantitativo eccessivo di cadmio (6,5 volte superiore alla norma), zinco (cinque volte superiore alla norma), antimonio, cromo esavalente e cobalto. Per queste sostanze l’indicazione fornita dall’Ispra è precisa: «Per le loro caratteristiche dovranno essere rimosse dalla zona per, poi, essere smaltite in discariche specifiche». L’altra conferma viene sempre dagli stessi tecnici dell’Istituto che hanno rilevato come alcune concentrazioni di queste sostanze si siano potute ridurre a causa della permanenza protratta negli anni in terreni altamente permeabili, ma i cui effetti, hanno spiegato, si sarebbero già manifestati attraverso il passaggio nelle falde acquifere superficiali e profonde. Nessuna spiegazione ulteriore, invece, sul livello di contaminazione radioattiva riscontrata nell’area. Per l’Ispra i picchi di cesio 137, riscontrati con valori addirittura 16 volte superiori a quelli del fondo naturale della zona, sarebbero da ritenersi come effetto della contaminazione da ricaduta di Chernobyl. Una spiegazione che non chiarisce fino in fondo come sia stato possibile accumulare in aree ben circoscritte (Valle Petrone e Cava di Aiello Calabro e nelle località di Foresta di Serra d’Aiello) percentuali così alte di questa sostanza radioattiva. Un giallo che si svolge, tra l’altro, in una zona teatro del presunto traffico delle cosiddette “navi dei veleni”.